CASSARINO, Antonio
Nacque a Noto, una cittadina del Siracusano, verso la fine del Trecento.
Il C. fu, quindi, concittadino (oltre che contemporaneo) di una cerchia di letterati decisamente eccezionale per un così piccolo ambiente siciliano, di umanisti cioè della portata di Aurispa, Marrasio e Campiano. Anche egli avrà probabilmente seguito lo stesso curriculwn dei suoi amici: dopo i primi studi a Noto sotto la guida di un maestro comunale, grazie a qualche sussidio regio o del Comune, avrà continuato a studiare in una delle più celebri università del continente, senza però probabilmente conseguire il dottorato; nei documenti infatti non viene mai indicato con il titolo di doctor.
Nel triennio 1431-1433. il C. insegnò a Palermo come "magister scholae parvulorum": negli ultimi mesi di questo insegnamento palermitano fu suo scolaro il Ransano che ha lasciato del suo primo maestro un'affettuosa testimonianza. Insoddisfatto della vita isolana e desideroso di sapere e di gloria ("ad maiorem aspìrans... gloriam", come diceva il Ransano), il C. abbandonò la Sicilia: ai primi del 1434 era infatti a Genova, da dove raggiunse Venezia e, profittando forse di una occasione favorevole, s'imbarcò per Costantinopoli.
Sulla permanenza negli anni tra il 1434 e il 1438 a Costantinopoli (le attestazioni encomiastiche del Ransano, tra cui quella che "miro, cum. civium tuni imperatoris favore in auditorum magna frequentia docuit", sottendono forse una visione storiografica municipalistica) nulla si sa di sicuro. Seguì probabilmente i corsi di filosofia e di greco del retore Giovanni Eugenico (sotto la cui guida, nello stesso periodo del C., studiò a Costantinopoli il Tortelli) e questo insegnamento influenzerà notevolmente l'indirizzo e le scelte culturali degli studi dell'umanista siciliano. Come documento di quel periodo resta una lettera da Costantinopoli a Stefano de Marinis che ci dà la misura dei fermenti culturali che andavano allora lievitando nel C.: i suoi principali interessi convergevano già chiaramente su Platone e Plutirco (e di Platone proprio in questo periodo pensava di tradurre il Convivio).
Nel 1438 ritornò da Costantinopoli e dimorò a Venezia per qualche tempo ospite di Giovanni Cornaro, indubbiamente per saggiare la possibilità di trovare una sistemazione nella città. Una lettera, indirizzata subito dopo ad Isotta Nogarola, cui probabilmente aveva affidato il compito di effettuare dei sondaggi per un possibile inserimento in altri ambienti, e un documento notevole del costume letterario del Quattrocento per l'accenno a riunioni e discussioni culturali. L'affermazione del Ransano, che il C. avrebbe insegnato, cioè, prima del definitivo soggiorno genovese, a Pavia e a Milano, non trova conferma alcuna nei documenti di archivio: dato il brevissimo periodo intercorso tra l'arrivo a Venezia ed il soggiorno genovese è probabile che il C., sempre alla ricerca di un impiego, abbia solo sostato brevemente nelle due città lombarde. A sicuro, comunque, che nella primavera del 1439 il C. si trovava già a Genova, perché con decreto in data 10 giugno veniva assunto come insegnante "stipendio publico".
Nella Genova della prima metà del Quattrocento, culturalmente poco fervida, politicamente instabile, il C., anche se non sempre serenamente, poté attendere al suo lavoro spesso assillato da una precaria posizione economica. Lo stipendio di cento fiorini genovesi all'anno non gli consentiva certo di condurre un'esistenza agiata e decorosa, per cui fu costretto a contrarre dei prestiti, sotto l'autorevole garanzia del doge Tommaso Fregoso il quale non "ignorans inopiam pecuniae, qua vir doctissimus Antonius Cassarinus nunc premitur, decernit et iubet ut vir nobilis Paulus de Vivaldis, qui rogatus assensit, subveniret ipsi Antonio de libris centum", assicurando però che la somma sarebbe stata restituita "cum. provisione ipsius Antonii". Ed i reggitori della Repubblica non furono infatti insensibili alle rimostranze clel C. e promossero in Senato una discussione sui meriti e sulle condizioni economiche dell'umanista: fu giocoforza riconoscere l'opera meritoria svolta dal C. ed il 12 maggio 1441 gli venne concesso con un decreto un considerevole aumento di stipendio ed altri privilegi ed immunità eccezionali per poter attendere ai suoi compiti senza preoccupazione alcuna. Della raggiunta serenità e del sincero entusiasmo del C., dopo aver ottenuto questi benefici, è spia una sua lettera a un allievo, appartenente ad una delle famiglie più nobili della città, Prospero Adorno: in essa l'umanista, seppur tra i veli di una tematica pedagogica assai in voga, attesta il suo impegno d'insegnante e la sua fede nella cultura per la formazione dell'uomo e dei cittadino. Ma la serenità e stabilità econornica dei C., in concomitanza con le crisi politiche della città, furono effimere: nel 1443 lo stipendio gli fu ridotto a 275 fiorini e poi addirittura a 200. L'entusiasmo e l'impegno scolastico a questo punto scemarono e il C. attraversò un periodo di crisi che si manifestò in una chiara diminuzione dei suo zelo, tanto che nel dicembre del 1444 gli fu notificato dal cancelliere Giacomo Bracelli un ammonimento da parte dei reggitori genovesi "ut quemadmoduni perce pit salarium a Comuni, ita prestet ea ad que obligatus est". Le difficoltà però, lungi dal risolversi, andarono sempre più aumentando, fin a che nel settembre 1445 non vi fu una ulteriore proposta di decurtazione del già tanto misero stipendio. È probabile che il C. sia stato una vittima degli aspri giochi di potere delle fazioni al governo e della loro politica locale. Infatti, forse sollecitato dalle giustificate lamentele dell'umanista, il governo, alcuni mesi dopo, il 20 dicembre, cedeva di fronte a pubbliche rimostranze, respingendo la già formulata proposta di decurtazione. Ma l'amarezza e lo sconforto, uniti ad una sempre più urgente aspirazione ad una serenità dì vita e dì studi, indussero il C. a rivolgersi al suo amico Antonio Panormita, assai potente nella Napoli aragonese, perché lo aiutasse a trasferirsi alla corte di Alfonso. Si può legittimamente ritenere che il Panormita abbia concesso il suo appoggio al C., suggerendogli, da perfetto conoscitore dell'animus e degli interessi culturali di Alfonso, di preparare qualche lavoro da offrire al sovrano come saggio delle proprie capacità e come pegno di future e più grandi fatiche. Ma altre umiliazioni attendevano ancora il Cassarino. Un momento assai crifico dovette essere per lui il 6 giugno del 1446 quando arrivò a Genova Fernando di Cordova, uno studioso legato ad interessi culturali di chiaro stampo medievale ma dottissimo e dotato di memoria prodigiosa; alla presenza di migliaia di persone, del governo genovese e dell'ambiente più colto della città, Fernando diede una dimostrazione della sua cultura, discutendo ventotto questioni attinenti i rami più disparati dello scibile. Enorme fu l'amarezza del C. assistendo impotente a tanto sfoggio di dottrina superata e ciarliera. Una lettera al cancelliere Giacomo Curlo, allievo ed amico, caro anche al Panormita e ad Alfonso d'Aragona, testimonia la profonda sofferenza causata da questo episodio al C. per il fatto che il suo sdegnoso silenzio davanti a tanta presunzione culturale fu equivocamente interpretato come invidia dall'auditorium genovese: ma in conclusione a questa lettera il C. attesta fiduciosamente la sua speranza che sarebbe venuto il giorno in cui tanta ciarlataneria ("nebulonis ac praestigiatoris insania") sarebbe stata clamorosamente scoperta. La vita a Genova era ormai diventata per il C. decisamente insostenibile e perciò attendeva ardentemente di trasferirsi alla corte d'Alfonso. Il Curlo, che certamente si adoperava a spianargli la strada, riuscì poi a trascinare anche il C. in quella congiura letteraria contro il Valla, ordita dal Panormita e dal Facio e provocata dalle emendationes altesto di Livio: su richiesta del Curlo, il C. espresse il suo parere su alcune di quelle proposte testuali degli amici napoletani, come fa intendere il Valla in un passo delle Recriminationes, dove l'umanista netino è lodato come "non modo Latinaruin sed Grecarum literarum sane peritus".
Proprio quando era sul punto di trasferirsi a Napoli, nel genn. 1447, il C. fu colto da morte improvvisa a Genova.
Aveva già portato a termine la traduzione della Repubblica e lavorava alacremente ad una generale revisione del lavoro e forse all'impegnativa stesura della dedica ad Alfonso. Sulle circostanze della morte resta la sola testimonianza del Ransano, cui tuttavia si può prestar fede in quanto avrà riferito notizie apprese a Napoli dagli amici del C., assai colpiti dalla tragicità della morte dell'umanista siciliano. Secondo il Ransano il C., durante una sommossa genovese, minacciato e assediato in casa da alcuni rivoltosi, sarebbe precipitato da una finestra nel tentativo di mettersi in salvo. Accettando i fatti narrati dal Ransano, la morte può essere datata con sicurezza al gennaio 1447, quando in Genova si ebbe una sommossa, l'unica accertata in quell'anno, capeggiata da Giano Fregoso che cacciò gli Adorno dal governo. Una prova decisiva inoltre è fornita da un documento del 3 ottobre 1447che così comincia: "Cum presenti anno Ianue vita perfunctus esset vir doctissimus Antonius Cassarinus...".
Nulla è possibile sapere sui manoscritti posseduti dal C.: qualcuno dovette tuttavia pervenire al Panormita che fece raccogliere in due grossi volumi le traduzioni dell'amico. Il Filelfo cercò invano, pur essendo disposto a pagarlo qualsiasi cifra, il codice greco di Platone posseduto dal Cassarino. Tutta la attività letteraria dell'umanista si esplicò esclusivamente nelle traduzioni. Egli stesso, nell'Isagogicon alla traslatio della Repubblica, credette opportuno giustificarsi per il suo lavoro condotto solo su questo versante, arrivando, in una pagina efficace e piena di fermenti culturali, a circostanziare il valore della traduzione come recupero e divulgazione di una cultura indispensabile per il rifiorire stesso degli studi e il progresso della civiltà. A posto cioè l'accento sull'importanza e sulla complessità, della traduzione, per l'ingente problematica, dalla critica del testo a questioni più propriamente tecniche, cui il traduttore va incontro, nello sforzo di rendere con precisione la filigrana dell'originale. Il C. tradusse nove opuscoli dai Moralia di Plutarco, due dialoghi pseudoplatonici, la Vita di Platone di Diogene Laerzio e la Repubblica. Non ci sono pervenuti alcuni saggi di traduzione da Omero che il C. in una lettera di dedica dichiarava di aver effettuato.
Le traduzioni plutarchiane nel Quattrocento, da una valutazione di tutti i risvolti sociopedagogici del De liberis educandis in ambito guariniano e da un'individuazione degli ideali eroici del Rinascimento nelle fitte maglie delle Vite parallele ad un'indagine complessiva ancora tutta da impostare sulla fortuna dei Moralia, restano ancora un campo assai intricato e difficile. Anche il C., in questa complicata avventura culturale, ha svolto un ruolo di qualche rilievo. Al centro dei suoi interessi c'era la "ratio bene vivendi" e giudicava che ad attuarla nessuna guida fosse più utile ed efficace di Plutarco. Il C. è stato uno dei pochi ad occuparsi esclusivamente dei Moralia ed a tradurne il maggior numero di opuscoli: le sue traduzioni furono raccolte dal Panormita in un'unica silloge, il ms. Vat. lat. 3349. La prefazione dello opuscolo Quomodo quis se laudare possit, dedicato a Tommaso Fregoso il Vecchio, racchiude testimonianze assai significative per la storia della fortuna umanistica dei Moralia e delle chiarificazioni assai perspicue sui motivi che sollecitarono l'interesse degli umanisti verso siffatte traduzioni plutarchiane. L'opuscolo Quomodo amicus ab adulatore possit cognosci, dedicato ad Andrea Bartolomeo Imperiali, personalità di rilievo nella vita politico-culturale della Genova quattrocentesca, fu uno dei primi ad essere tradotti dal C., per pura esercitazione, certamente durante il soggiorno a Costantinopoli; nonostante le successive minute revisioni questa traduzione non raggiunse mai il livello delle prove migliori dell'umanista. Pure all'Imperiali è dedicata la traduzione del De utilitate quae habetur ex inimicis, mentre al cancelliere G. Curlo, probabilmente prima del 1445, anno in cui il Curlo si allontanò da Genova, il C. dedicò la traduzione del De ira moderanda: la pagina di dedica e soprattutto la scelta dell'opusculum propongono un contenuto polemico e didattico, sottolineando l'aspirazione di un uomo agli otia letterari e ad una tranquillità esistenziale. La traduzione del Convivium septem sapientium, dedicata ad Antonio Fregoso, nipote del doge Tommaso, risale con tutta probabilità agli anni di Costantinopolì, con modifiche e ritocchi successivi, ma la dedica venne quasi certamente stesa, come si desume da alcuni dati interni, tra il 1444 e il '45.
La traduzione degli Apophthegmata Laconica, dedicata a Brancaleone Grillo, venne intrapresa dal C. quando questi apprese dal Curlo che gli Apophthegmata ad Traianum erano stati tradotti dal Filelfo; egli pensò con questo lavoro di dar compimento alla traduzione dell'intera opera, in quanto le due sezioni dovevano essere considerate inseparabili. Successivamente, trovando molto errata la traduzione degli Apophthegmata ad Traianum che circolava, credette opportuno sostituirla con una propria, dedicata all'amico Curlo. Nel ms. Vat. Ottobon. lat. 1398 c'è latraduzione del De avaritia, adespota ma sicuramente del C., in quanto l'opuscolo è indirizzato ad un Antonio, cui il nostro autore afferma di avere dedicato un precedente lavoro versorio, il De divitiis. Questo accenno rende sicura l'attribuzione al C. perché l'umanista netino dedicò ad Antonio Fregoso la sua traduzione dello pseudoplatonico Erixias, de divitiis. Il C. avrebbe voluto tradurre tutto Platone a lui sommamente caro accanto a Plutarco, e di Platone illuminava soprattutto gli aspetti che più si accordavano con le istanze moralistiche del tempo. Il momento più significativo per una defimitazione degli ambiti della sua vocazione platonica è costituito dall'Isagogicon alla traduzione della Repubblica, documento di eccezionale importanza per la storia della fortuna di Platone nel Rinascimento. Di Platone il C. tradusse la Repubblica e due dialoghi pseudoplatonici, l'Axiocus, de morte dedicato a G. Curlo e l'Erixias, de diviffis, traduzioni che si leggono nel Vat. lat. 3349. La traduzione dell'Erixias fu dedicata, come abbiamo già detto, ad Antonio Fregoso, tra il 1439 e il 1440 (ma il compimento dell'opera risale agli anni di Costantinopoli), perché il 28 sett. 1440 il Filelfo, in una lettera al C., afferma di averla letta su una copia procuratagli proprio dal fratello di Antonio Fregoso. Il giudizio dei Filelfa sulla qualità della traduzione fu tanto lusinghiero che i due umanisti divennero prontamente amici. Ma la prova platonica maggiore fu per il C. la traduzione della Repubblica che egli apprezzava "mira prorsus elegantia et suavitate", affermando di averla tradotta "communis boni et Platonis ipsius amore". Nella prefazione il C. fornisce gli elementi chiarificatori per una precisa "collocazione" della sua traduzione: è operata in essa cioè una decisa stroncatura delle precedenti traduzioni della Repubblica, da quella più arcaica di Emanuele Crisolora (nei cui confronti il C. si esprime in modo non molto lusinghiero) a quelle di Uberto Decembrio e di P. C. Decembrio, ritenute condotte l'una sull'altra e, in definitiva, su quella del Crisolora. Quando, verso il 1459, il Decembrio lesse le gravi accuse rivolte dal C. al suo lavoro ed a quello del padre, scrisse subito a difesa una Apologia, purtroppo andata perduta, contro l'umanista siciliano. Di essa possiamo farci un'idea da una lettera al Birago (ms. Ambrosiano I, 235 inf., f. 702), nella quale viene delineato del C. un ritratto mendace e poco lusinghiero. La traduzione della Repubblica, nonostante l'immatura morte del suo autore, ebbe una discreta diffusione manoscritta. Nel ms. Vat. latino 3346 è contenuta pure la traduzione della Vita di Platone di Diogene Laerzio. Pur sapendo che era già stata tradotta, il C. la intraprese lo stesso con la giustificazione che in Genova quella traduzione non era nota e, soprattutto, con la motivazione che avrebbe aggiunto alla Repubblica la Vita, per poter presentare un lavoro più completo, non volendo certamente ricorrere, a questo scopo, all'opera altrui.
Il C. fu, nell'umanesimo italiano, sostanzialmente un isolato: il suo nome non compare nelle polemiche dell'epoca, né può essere registrato nelle fittissime trame degli epistolari del '400. Nel suo isolamento genovese il C. lavorò in silenzio alla divulgazione dei testi greci più congeniali all'umanesimo: né si fece distrarre dalle composizioni umanistiche di moda, come le Orazioni, le epistole e i versi. Il suo recupero culturale lo dobbiamo al suo conterraneo A. Panormita, il quale, sollecitamente provvedendo alla sistemazione degli scritti, ci ha permesso di ricostruire la personalità di un umanista che altrimenti sarebbe rimasto soltanto un nome.
Fonti e Bibl.: La biogr. del C. scritta da Pietro Ransano (Ranzano) ultimam. in G. Resta, A. C. e le sue traduz. da Plutarco e Platone, in Italia medioevale e umanistica, II (1959), pp. 207-283; B. Facio, De viris illustribus liber, a cura di L. Mehus, Firenze 1745, p. 16; la lettera alla Nogarola in Isotac Nogarolae Veronensis Opera quae supersunt..., a cura di E. Abel, I, Vindobonae 1886, epist. XXI, pp. 137-145; le lettere a Stefano de Marinis, a Prospero Adorno, ed un carme per Andreolo Vivaldi in G. Resta, A. C., cit., pp. 272-276; G. Balbi, L'Epistol. di Iacopo Bracelli, Genova 1969, pp. 7, 60, 68, 166; F. Adorno, Uberti Decembris Prologus in Platone "De Republica", Georgii Trapezuntii Praefatio in libros Platonis "De Legibus", in Studi in onore di A. Corsano, Manduria 1970, pp. 7-17: tutte le prefaz. alle trad. del C. in Resta, A. C., cit., passim;T. Fazelli De rebus Siculis decades duae, Panormi 1568, p. 109; V. Littarae De rebus Netinis liber, Panormi 1593, pp. 119 s.; R. Pirro, Sicilia sacra, I, Palermo 1733, a cura di A. Mongitore, p. 668; A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, I, Panormi 1707, pp. 59 s.; A. Narbone, Istoria della letter. siciliana, sec. XV, X, Palermo 1859, pp. 214 s.; V. Di Giovanni, Filologia e letteratura sicil., III, Palermo 1879, pp. 198 ss.; G. Braggio, G. Bracelli e l'umanesimo dei Liguri al suo tempo, in Atti della Soc. lig. di st. Patria, XXIII (1890), pp. 22, 116 ss.; R. Sabbadini, Biografia documentata di Giovanni Aurispa, Noto 1891, pp. 168 ss.; Id., Note umanistiche: Ferdinando Spagnolo, in Giorn. ligust., XVIII (1891), pp. 302-305, dove è pubblicata una lettera del C. al Curlo ora nuovamente edita da Resta, A. C, Cit., pp. 281 ss.; A. Neri, Noterelle d'archivio: Tommaso Moroni, A. C., in Giorn. stor. e letter. d. Liguria, V (1904), pp. 22-32; R. Valentini, Sul Panormita. Notizie biogr. e filologiche, in Rendic. della R. Acc. dei Lincei, ci. di sc. mor., stor. e filologiche, XVI (1907), p. 484; M. Catalano, L'istruz. pubblica in Sicilia nel Rinascimento, Catania 1911, p. 7; L. Pescetti, Appunti su A. C. e la sua traduz. della "Repubblica" di Platone, in Bollett. d. R. Accad. di sc., lett. e belle arti di Palermo, VII (1929), pp. 23-45; E. Garin, Ricerche sulle traduzioni di Platone nella prima metà del secolo XV, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di B. Nardi, I, Firenze 1955, pp. 339-74.