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Bologna

di Erminia Irace - Enciclopedia machiavelliana (2014)
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Bologna

Erminia Irace

Nelle Istorie fiorentine, B. è spesso ricordata quale rifugio dei fuorusciti della città toscana nei secoli 13°-15° (per es., Istorie fiorentine II viii e III xxvii-xxviii). Poiché l’opera affronta il tema dei conflitti tra fazioni fiorentine, il ricordo della città emiliana si riferisce, anzitutto, al suo essere stato un luogo di riparo da cui gli esuli tentavano di rientrare in patria. Stante la vicinanza geografica e i legami esistenti tra le famiglie eminenti delle due città, B. rappresentò a lungo una fonte di instabilità per l’assetto della Repubblica fiorentina. Nel contempo, M. sottolinea il sostegno, anche militare, che Firenze prestò in varie occasioni alla causa dell’indipendenza bolognese, costantemente minacciata dalle strategie di recupero territoriale attuate dal papato, nonché dall’espansionismo milanese e veneziano (Istorie fiorentine I xxviii e III vii). Tali disegni mettevano a repentaglio i confini appenninici del dominio di Firenze e, più in generale, le aspirazioni di quest’ultima a diventare una potenza sovraregionale. Per tali motivi, la difesa dell’autonomia di B. fu un punto fermo della politica estera fiorentina.

L’affermazione della signoria dei Bentivoglio, a partire da Giovanni I (morto nel 1402), è seguita da M. nel senso che si è appena esposto. Più delle altre famiglie dell’oligarchia bolognese, i Bentivoglio si mostrarono paladini dell’indipendenza di B., conquistando in tal maniera la «benivolenzia populare» (Principe xix 17). L’importanza, per il principe, di godere del consenso della cittadinanza è illustrata attraverso un episodio particolare. Il 24 giugno 1445 Annibale Bentivoglio fu ucciso dai Canetoli, i capi della fazione a lui avversa. Anziché unirsi agli «ucciditori» e festeggiare la ritrovata libertà, il «popolo» aggredì i responsabili dell’omicidio, nel timore che essi consegnassero la città ai Visconti (Istorie fiorentine VI ix). Secondo M., esempi come questo dovrebbero fermare la mano di qualunque congiurato

perché dove, per l’ordinario, uno coniurante ha a temere innanzi alla esecuzione del male, in questo caso debbe temere ancora poi, avendo per nimico el populo, seguíto lo eccesso, né potendo per questo sperare refugio alcuno (Principe xix 14).

Nel corso del Quattrocento i legami tra Firenze e B. si rafforzarono, come dimostra l’intervento di Cosimo de’ Medici nel favorire la signoria di Sante, figlio naturale di Ercole Bentivoglio, nel 1446 (Istorie fiorentine VI x; cfr. Principe xix 17). Il successore di Sante, Giovanni II – signore di B. dal 1463 al 1506 – poté contare sulla costante protezione di Lorenzo de’ Medici (cfr. Istorie fiorentine VIII xxxv). Sotto il suo governo, la città diventò uno dei fulcri dell’equilibrio politico della penisola, anche perché Giovanni sottoscrisse una serie di condotte militari, per sé e per i propri figli, con i maggiori Stati dell’Italia centro-settentrionale.

Nel 1494, dopo la caduta del regime mediceo, Piero e Giuliano de’ Medici si rifugiarono a B. e i Bentivoglio appoggiarono militarmente i loro tentativi di rientrare a Firenze: si vedano le missive dei Dieci ai commissari in campo del settembre 1498 (per es., LCSG, 1° t., pp. 61-62). Per la Repubblica fiorentina diventava, dunque, assai importante legare a sé i Bentivoglio tramite delle nuove condotte. Di pagamenti da versare agli uomini d’arme avrebbe dovuto trattare M. nel febbraio 1500, epoca alla quale risale una credenziale che lo presentava a Giovanni II e ad Alessandro Bentivoglio, allora impegnati in Lombardia; una missione, tuttavia, che M. non compì (Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, 1964). L’incontro con il signore di B. e la trattativa per riportarlo al servizio militare di Firenze furono rinviati di poco. Infatti M. ebbe un colloquio con Giovanni II nel luglio del medesimo anno, in occasione del viaggio che lo avrebbe portato in Francia (cfr. istruzione di Francesco Lenzi a M. e a Francesco della Casa, 17 luglio 1500, LCSG, 1° t., pp. 392-97). M. riferì l’incontro nella missiva inviata ai Dieci il 29 luglio 1500 (LCSG, 1° t., p. 402; per l’evoluzione della vicenda: la Signoria a M. e Francesco della Casa, 30 agosto 1500, LCSG, 1° t., pp. 447-49).

Le relazioni tra Firenze e i Bentivoglio si rinsaldarono nuovamente allorché Cesare Borgia scatenò la propria offensiva in Romagna, nell’autunno 1500.

L’impresa fu realizzata con il consenso di Luigi XII, mentre M. si trovava presso la corte francese. Pertanto, le notizie che egli riferì circa le reazioni dei Bentivoglio all’attacco borgiano risultarono essenziali per le autorità fiorentine (lettere di M. alla Signoria, 2, 8 e 25 ott. e 21 nov. 1500, LCSG, 1° t., pp. 478-82, 485-87, 501-03 e 524-25). Nell’aprile 1501 Cesare attaccò Castel San Pietro, avvicinandosi a B. (cfr. Principe vii 17). Per sventare la manovra, Giovanni II armò il popolo, organizzando una clamorosa resistenza. In seguito, M. dovette ricordarsi di questo evento allorché, nei Ghiribizzi al Soderino, scrisse che «Lorenzo de’ Medici disarmò el popolo per tenere Firenze; messer Giovanni Bentivogli per tener Bologna lo armò» (Lettere, p. 136). Sull’accordo infine patteggiato tra il Valentino e Giovanni II cfr. Discorsi I xxxviii 7.

Nell’estate 1502 Cesare si accampò a Imola, «dove disegnava […] fare la impresa contro a messer Giovanni Bentivogli, tiranno in Bologna, perché voleva […] farla capo del suo ducato di Romagna» (Il modo che tenne il duca Valentino, § 1). Il pericolo indusse Giovanni II a inviare il figlio Ermes a partecipare alla congiura della Magione, nella quale fu deliberato, tra l’altro, di «non abbandonare e’ Bentivogli» (§ 4).

Ma, alla fine di ottobre 1502, Giovanni si staccò dai congiurati, intavolando una trattativa con il Valentino e con il papa. Il procedere dell’accordo fu riferito passo passo nelle missive che M. inviò da Imola, tra il 27 ottobre e il 6 dicembre 1502. La questione era di vitale importanza per Firenze. Se Cesare si fosse impadronito di B., il territorio fiorentino sarebbe stato accerchiato dai domini papali e minacciato di aggressione a sua volta.

Condotto con «diffidenzie e sospezioni» da entrambe le parti (M. ai Dieci, 10 nov. 1502, LCSG, 2° t., p. 432), il negoziato fu concluso tra il 23 novembre e il 2 dicembre 1502 (M. ai Dieci, 2 dic. 1502, LCSG, 2° t., pp. 476-77 e 479-81). Esso stabilì, tra le altre cose, che i mallevadori della pace fossero il duca di Ferrara e Firenze, la quale acconsentì a condizione che i propri interessi non risultassero danneggiati (i Dieci a M., Firenze, 19 nov. 1502, LCSG, 2° t., pp. 450-52). Pochi giorni più tardi, a suggello del nuovo ordine, Cesare disse a M. che se Firenze, Ferrara e i Bentivoglio – divenuti dei «frategli» – andavano d’ora in avanti «ad un cammino» con lui, non ci sarebbe stato più nulla da temere (M. ai Dieci, 6 dic. 1502, LCSG, 2° t., p. 484).

Dopo l’eclisse del potere borgiano, B. e i Bentivoglio tornano protagonisti degli scritti di M. nel 1506, l’anno in cui la città venne conquistata da papa Giulio II. Il nuovo pontefice era fermamente intenzionato a recuperare alla Sede apostolica la Romagna che, dopo la caduta del Valentino, era stata occupata dai veneziani. Dalle terre romagnole, egli intendeva dirigersi a B., estromettendo i Bentivoglio («ridurre le terre a l’ubbidienza della Chiesa e purgarle da’ tiranni»: M. ai Dieci, da Urbino, 25 sett. 1506, LCSG, 5° t., p. 482; il motivo della tirannia bentivolesca si rinviene anche nel Decennale II, vv. 91-96). L’obiettivo, in questo caso, consisteva non soltanto nel sottomettere la seconda città dello Stato ecclesiastico, ma anche nel fornire una lezione esemplare a tutte le comunità soggette al governo di Roma. L’importanza che Giulio II attribuì alla conquista di B. fu talmente grande che alla spedizione parteciparono ventisei cardinali e l’intera corte papale; con una decisione senza precedenti, il pontefice in persona si mise alla testa della comitiva.

M. fu testimone dell’impresa, giacché accompagnò la spedizione da Nepi (era partita da Roma il 26 agosto) fino a Imola, attraverso un lungo itinerario che transitò per il Lazio, l’Umbria e le Marche, toccò Forlì, poi entrò in territorio fiorentino (Castrocaro, Marradi) e da lì raggiunse l’area emiliana. Il 26 ottobre M. lasciò la corte papale, facendosi sostituire dall’ambasciatore Francesco Pepi. Cinque giorni più tardi, nella notte tra il 1° e il 2 novembre, i Bentivoglio abbandonarono B., rifugiandosi a Milano; l’11 novembre il papa entrò trionfalmente in città.

Durante la sua permanenza presso la comitiva papale, M. inviò una quarantina di dispacci, molti dei quali riguardanti la questione bolognese. Egli ragguagliò sul contesto diplomatico entro il quale si svolse l’impresa. Il papa contava sull’aiuto militare promesso da Luigi XII; il beneplacito francese avrebbe indotto Venezia a mantenersi neutrale (M. ai Dieci, 28 ag. e 1° sett. 1506, LCSG, 5° t., pp. 431-38 e 442-43). M. capiva perfettamente i progetti del pontefice:

«questo Papa ci è su più caldo che mai» (M. ai Dieci, 25 sett. 1506, LCSG, 5° t., p. 482). Tuttavia, fino agli inizi di ottobre, egli ritenne che Giulio II si sarebbe limitato a spaventare i Bentivoglio, costringendoli ad accettare un «onesto accordo» che garantisse le prerogative della Sede apostolica sulla città (M. ai Dieci, 25 sett. 1506, LCSG, 5° t., p. 483). Tale convinzione si fondava, soprattutto, sui contenuti di un colloquio avuto con il pontefice, nel quale Giulio II aveva affermato che «se [i Bentivoglio] non cedevono a santa Chiesa, lo aspettassino nimico e loro acerrimo perseguitatore», ma che se, viceversa, essi «pigliavano assetto con el Papa», allora nessuno li avrebbe toccati (M. ai Dieci, 28 ag. 1506, LCSG, 5° t., p. 438). Dunque, il pontefice «temporeggerà», «la cosa» andrà «in lunga», anche perché proseguivano i negoziati con gli emissari inviati dai Bentivoglio e dal reggimento bolognese (M. ai Dieci, 2 sett. 1506, LCSG, 5° t., pp. 444-45). In definitiva, le impressioni ricavate da M. erano contrastanti: «bisogna stare ora a vedere quello che ‘l tempo porta e consigliarsi con quello» (M. ai Dieci, 9 sett. 1506, LCSG, 5° t., p. 457).

L’approssimarsi delle truppe francesi impresse una decisa accelerazione agli eventi. Durante un concistoro svolto a Cesena il 7 ottobre, il papa decretò l’interdetto contro B.; il successivo 10 ottobre, nel corso di un altro concistoro celebrato a Forlì, Giovanni II e i suoi seguaci furono dichiarati ribelli della Chiesa (in un documento che M. definì la «bolla della maladizione»: M. ai Dieci, 25 ott. 1506, LCSG, 5° t., p. 522). Soltanto a questo punto il papa palesò le sue reali intenzioni all’inviato di Firenze: «io non voglio patti con messer Giovanni» (M. ai Dieci, 12 ott. 1506, LCSG, 5° t., p. 508). Stando così le cose, anche Firenze si dovette adeguare, accettando di inviare al papa un contingente armato (cfr. M. ai Dieci, 12 ott. 1506, LCSG, 5° t., pp. 508-09; i bolognesi si sentirono traditi da Firenze: M. ai Dieci, 25 ott. 1506, LCSG, 5° t., pp. 518-19).

In queste missive, dove hanno largo spazio le incertezze e le lungaggini delle trattative condotte tra il papa e i bolognesi, si percepisce anche lo stupore con il quale M. assisté all’impresa del pontefice. Sulla ricostruzione della vicenda, M. tornò negli anni successivi, quando il ricordo degli eventi venne filtrato dalla meditazione politica. In una lettera del 1510 egli inserì un sintetico riferimento alla «‘mpresa di Bologna», nella quale il papa «si partì da Roma sanza avere fermo con ‘Franzesi e con altri cosa alcuna certa; dipoi con l’audacia ed autorità sua se li tirò dreto» (M. ai Dieci, 18 luglio 1510, LCSG, 6° t., p. 433). Ma è soprattutto nelle opere maggiori che la rielaborazione si fa più distesa. Nel Principe M. sottolineò che papa Giulio aveva portato a compimento la riconquista delle terre emiliano-romagnole avviata da Alessandro VI (cfr. Principe xi 14-15). L’apparente discontinuità del comportamento di Giulio II rispetto ai suoi predecessori era, in tal maniera, ricondotta nell’alveo delle strategie italiane del papato, che da lungo tempo aspirava al recupero delle terre ecclesiastiche. Certo, il pontefice si era comportato in maniera audace: egli «procedé in ogni sua azione impetuosamente» (Principe, xxv 18). Tuttavia, tale irruenza andava considerata, più che un mero elemento caratteriale, una precisa linea politica, scaturita dall’attenta analisi delle forze in campo: «Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe condotto. Perché, se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme e tutte le cose ordinate […] mai gli riusciva: perché il re di Francia arebbe avuto mille scuse e li altri li arebbono messo mille paure» (Principe xxv 19-23; cfr. altresì Discorsi III xliv 6-8).

La conquista papale di B. non fu definitiva. Tra il 1507 e il 1509, la rottura dell’alleanza tra il pontefice e Luigi XII si ripercosse immediatamente sulla situazione locale. Nei dispacci della diplomazia fiorentina si coglie bene la rinnovata preoccupazione circa l’instabilità dell’area emiliana. Di ritorno dalla missione in Germania, nel giugno 1508, M. sostò a B., ragguagliando i Dieci sugli assetti cittadini (M. ai Dieci, 14 giugno 1508, LCSG, 6° t., pp. 257-58).

Nell’estate 1510 le autorità fiorentine informarono i loro emissari circa gli spostamenti delle milizie papali, che attraversarono il territorio della Repubblica.

Era facile, infatti, che a esse si unissero quegli uomini d’arme che erano al soldo di Firenze, pur essendo sudditi del papa: «noi abbiamo sempre dubitato in questi nostri condottieri […] questa cosa ci reca tanto disturbo e pericolo, quanto si possa imaginare» (i Dieci all’ambasciatore in Francia Roberto Acciaiuoli, 29 ag. 1510, LCSG, 6° t., p. 524; sullo stesso tema: M. ai Dieci, 18 luglio 1510, LCSG, 6° t., pp. 429-34).

M. tornò a B. all’inizio del 1527, nel corso della missione presso Francesco Guicciardini. Dalla città emiliana egli fornì notizie sulle strade che le truppe imperiali potevano intraprendere nella loro discesa della penisola, alla volta di Roma. Se i lanzichenecchi avessero scelto il «cammino» bolognese, allora Firenze avrebbe dovuto prepararsi al peggio (la citazione in M. agli Otto di pratica, 18 febbr. 1527, LCSG, 7° t., p. 202; cfr. M. agli Otto di pratica, 4 marzo 1527, LCSG, 7° t., pp. 202-04).

Bibliografia: Fonti: N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, 1° vol., Milano 1964, p. 58. Per gli studi critici si vedano: G. De Caro, Bentivoglio Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 8° vol., Roma 1966, ad vocem; O. Banti, Bentivoglio Sante, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 8° vol., Roma 1966, ad vocem; C. Shaw, Julius II, Oxford 1993 (trad. it. Torino 1995); A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo. Bologna 1506, Bologna 2004; Storia di Bologna, diretta da R. Zangheri, 2° vol., Bologna nel Medioevo, a cura di O. Capitani, Bologna 2007, e 3° vol., Bologna nell’età moderna (secoli XVI-XVIII), 2 tt., a cura di A. Prosperi, Bologna 2008.

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