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DOLFIN, Daniele Andrea

di Paolo Preto - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)
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DOLFIN, Daniele Andrea

Paolo Preto

Nato a Venezia il 22 apr. 1748 da Daniele (I) e Bianca Contarini, percorse la tipica carriera dei rampolli delle più influenti famiglie aristocratiche. Dal 26 luglio 1775 al 26 ag. 1777 fu capitano e vicepodestà di Verona e mostrò particolare interesse alla protezione dell'arte della seta; nel 1779 venne designato ambasciatore a Parigi, iniziando la sua missione nell'ottobre 1780 e concludendola nel marzo 1786.

Quando nel 1780 giunse nella Parigi dei lumi, fresca del fallimento delle riforme del Turgot e ormai percorsa dalle inquietudini che di lì a qualche anno sarebbero sfociate nella convocazione degli Stati generali, il D. era "un uomo colto, amico di letterati, legatissimo al Tron, che considerava tra i maggiori riformatori europei, degno di essere paragonato al Necker" (Cozzi, Repubblica..., p. 363). Mentre da Venezia il suo amministratore Luigi Ballarini, pettegolo osservatore delle trame pubbliche e private della decadente aristocrazia di S. Marco, lo teneva aggiornato delle novità politiche di rilievo e delle curiosità mondane, il D. fu costretto dalla debole e rinunciataria politica della Serenissima a "nascondersi come fanciulli che hanno vergogna di comparire fra gli uomini, e raccomandarsi alla Provvidenza" (Dispacci Francia, filza 259, 14 maggio 1781; Tabacco, Andrea Tron..., p. 115). In Francia la sua più convinta ammirazione andava al Necker, il cui concreto e moderato riformismo gli pareva il più adatto alle esigenze della monarchia francese. In mancanza di importanti questioni nei rapporti bilaterali, egli riempiva i suoi dispacci di stimolanti osservazioni critiche sulla vita politica e culturale francese: seguiva curioso l'affare della "collana della regina", scandalo colossale che contribuiva a incrinare l'immagine pubblica di Luigi XVI, trasmetteva notizie sulle lettere di Voltaire, informava sull'attività editoriale di alcuni philosophes prediletti, assisteva interessato alla prima ascensione dell'aerostato di Montgolfier. Di straordinario interesse i suoi dispacci, più volte studiati dagli storici, sulla rivoluzione americana, la nascita degli Stati Uniti e la personalità di Benjamin Franklin. Passato il primo momento di cauta attesa e scetticismo sulle sorti della guerra ("idolo di indipendenza", la chiamava ancora nell'estate 1782), il D. ebbe un improvviso scatto di simpatia per i coloni dopo la battaglia di Yorktown: convinto della loro imminente vittoria finale, vedeva nello Stato nascente i tratti caratteristici di Roma antica (spirito guerriero, costanza, violenza con i confinanti) pronosticando una futura espansione imperialistica verso le colonie spagnole sì che, concludeva, "convien attender che col favore del tempo, delle arti e cognizioni europee, questa diventi la potenza più formidabile dell'universo" (Dispacci Francia, filza 260, disp. 118, 10 febbr. 1783; Ambrosini, L'immagine..., p. 92).

Nelle sue pagine la rivoluzione americana diventa "la più strepitosa ed importante" del secolo, "uno smembramento del quale non vi [era] idea dopo la caduta del Romano Impero"; il nuovo Stato per vastità di terre e ricchezza di produzioni sarà protagonista dei "più grandi cambiamenti", è già un "Imperio nascente" tanto che il Mably, "celebre autore di libri politici", potrebbe "immortalare il suo nome con quelli di Licurgo e di Solone" se accettasse l'invito di Franklin a redigere il nuovo "codice di legislazione" (Del Negro, Il mito..., pp. 536 s.). Dai frequenti colloqui con il grande americano il D. traeva notizie di prima mano sui problemi della giovanissima democrazia: un grande debito interno, la mancanza di un forte potere centrale che contenesse le spinte centrifughe delle ex colonie, lo spirito di vendetta verso gli ex partigiani dell'Inghilterra (Ambrosini, L'immagine..., p. 102).

Affascinato dal Franklin, il D. ne coltivava la confidente e stimolante amicizia: lo invitava a cena, conversando sulle prospettive politiche del nuovo Stato, lo dipingeva al Senato con le espressioni più lusinghiere e al suo ritorno in patria introduceva nel Veneto la "stufa di Pennsylvania" e il parafulmine. Il D. fu anche attento a cogliere le opportunità che dall'amicizia con uno dei più influenti uomini politici degli Stati Uniti potevano scaturire per il commercio veneziano: il 24 marzo 1783 egli scriveva con soddisfazione che Franklin stava per lasciare l'Europa, ma avrebbe voluto prima fare un giro in Italia "a fine di porgere filosofico pascolo al di lui sublime ingegno", sicché anche i senatori veneziani avrebbero avuto occasione "di conoscer personalmente l'uomo più celebre di questo secolo, non tanto in grazia della sua vasta dottrina, quanto per la strepitosa rivoluzione dello smembramento dell'America settentrionale dall'Impero britannico" (Dispacci Francia, filza 260, disp. 124). Nell'agosto 1784 gli Stati Uniti proposero anche a Venezia un trattato commerciale e il D. ne caldeggiò insistentemente la stipulazione, certo delle grandi possibilità offerte dal nuovo Stato, ma il Senato, coerente con la sua politica di neutralità e di inerte rinuncia ad ogni novità, lasciò cadere l'offerta (Ambrosini, Un incontro mancato...). Nella consueta relazione finale al Senato, stesa nel febbraio 1785, il D. riassunse alcuni dei concetti più volte espressi nei dispacci: la straordinaria vicenda dell'indipendenza americana, la depressione della potenza inglese, peraltro forse temporanea perché "la situazione delle Isole Britanniche è fatta per essere la sede della prima potenza marittima del mondo e la prima potenza marittima sarà sempre formidabile ed avrà grande influenza anche sul sistema politico del continente", l'immane deficit della Francia, pur più ricca, colta e potente di ogni altra potenza europea ed extraeuropea.

Tornato da Parigi fu nominato senatore, il 31 marzo 1786, e poco dopo ambasciatore a Vienna, che raggiunse nel giugno dello stesso anno. La missione nel potente Impero, che da anni stringeva in una morsa la Repubblica facendo intravvedere non equivoche ambizioni territoriali, si svolse nel segno della tranquillità dei rapporti bilaterali, anche perché lo scoppio della Rivoluzione in Francia attraeva l'attenzione della corte asburgica e dello stesso Dolfin. A parte le solite e annose questioni confinarie, tra Venezia ed Austria non esistevano problemi politici di rilievo, ma il D. conosceva bene le aspirazioni segrete di Vienna sulla vacillante Repubblica, su cui si soffermò con brutale chiarezza nella lunga e vivace relazione presentata in Senato nel marzo 1793.

Come già il suo amico Andrea Tron, il D. vi si mostrava attratto dalle grandi figure di sovrani asburgici della seconda metà del '700: Giuseppe II "di gloriosissima memoria" aveva promosso "utilissime riforme economiche", aveva alleviato la miseria della classe indigente, ristretto i privilegi del clero e soprattutto era divenuto "celebre ne' fasti della storia e dell'umanità" per i due "cardinali editti"sull'abolizione della servitù della gleba e la tolleranza religiosa. Benché si fosse "spesse volte servito dell'odioso mezzo del dispotismo", il defunto imperatore era stato un esempio di buon governo e, inoltre, "era sinceramente amico della Serenissima Repubblica, della di cui sublime Costituzione e Governo nutriva vera e profonda estimazione". Anche Leopoldo II chiamava Venezia "il soggiorno della vera libertà, sicurezza e calma", ma purtroppo era morto prematuramente. Il D. non taceva circa le ambizioni austriache sulla Repubblica e raccomandava di coltivare la sua amicizia, d'altronde, osservava con acume politico, già nel passato il Senato era riuscito a "porre argine all'esorbitante grandezza della Casa d'Austria ed a equilibrarne il potere tenendosi stretti nell'amicizia colla Francia" e quindi anche ora "se la nazion Francese può resistere alle armi delle Potenze collegate; se abbattuti i capi promoventi intestine discordie, que' spiriti per verità troppo vivaci, e troppo facili a darsi in preda a partiti violenti ed estremi rientrassero nelle vie della moderazione, e dell'equità; se in somma quella nascente Repubblica si consolidasse, adottando una ragionata e ben intesa costituzione, essa formerebbe uno Stato di forza insuperabile, e di cui non esisterà l'eguale in Europa. Potrebbe divenire per conseguenza l'alleata più utile alla Serenissima Repubblica e tenere in freno la Casa d'Austria, la quale trovasi a portata di disturbare più prontamente di qualunque altra potenza i veneti domini" (Die Relationen..., pp. 346 s.). Ma in ogni caso, concludeva il D., "conviene temporeggiare con cautela, sino a tanto che si calmi il fermento generale, che tiene in agitazione tutta l'Europa, e sino a tanto che gli affari politici riprendano il naturale lor corso", tanto più che attualmente sul trono viennese siede un sovrano "che nutre sincera amicizia per la Serenissima Repubblica".

Le pagine più interessanti della relazione del D. sono quelle riservate alla Rivoluzione francese, la "più sorprendente... fra le tante, di cui fa menzione la storia". Già nei suoi dispacci da Parigi del resto egli aveva notato "che quel governo non poteva durare lungo tempo nello stato di violenza in cui si trovava, e che o presto o tardi l'enorme deficit delle finanze doveva divenir funesto alla corte medesima, benché in allora regnasse un ottimo, ma sventurato Monarca". La mancanza di denaro, dunque, ma anche le evasioni fiscali di nobiltà e clero e le "massime d'indipendenza bevute da parecchi uffiziali, che fecero la guerra in America a favore degli Stati Uniti" erano le cause della rivoluzione, ormai degenerata agli eccessi peggiori: delitti e stragi imperversavano, l'Assemblea nazionale si era impadronita di tutto il governo, "trasfondendo in sé il potere legislativo, esecutivo, e giudiziario, ciò che è il colmo del dispotismo, e, per sostenersi coll'affito del popolo nell'esercizio di tanta autorità, lo scioglie dal pagamento dei tributi, e promulgando i chimerici diritti dell'uomo, e l'impossibile comune eguaglianza, lo stacca dall'obbedienza delle leggi sociali e civili, che sole formano la vera libertà del genere umano" (Die Relationen..., pp. 337 s.). Ora i Francesi erano senza costituzione, "direi quasi di perfetta anarchia", ma non perciò dovevano essere facile preda delle potenze collegate, perché "essi avranno quei vantaggi, che avrà sempre una nazione numerosa, intraprendente e ardita, che pugna per sé, riscaldata dall'opinione di sostener la propria libertà, e combatte contro alleati d'interesse e di mire diverse". Singolarmente acute erano le osservazioni del D. sulla nuova dimensione "ideologica" e "popolare" della lotta politica in Europa. "Le armi dei Francesi sono tanto più pericolose, quanto che il veleno delle loro massime si diffonde ovunque, e precedendo le loro armate ne facilita i successi. Imagina il popolo con tali dottrine di ottenere un sollievo alla sua povertà, e si lusinga di essere a parte delle ricchezze del Proprietario, senza badare alla falsità, e insussistenza di dette opinioni, e senza riflettere ai mali inevitabili e gravissimi, cui va soggetta qualunque rivoluzione. Egli è cosa degna di sommo rimarco, come anche l'infima plebe, e i contadini, che per lo più dediti al loro travaglio per guadagnarsi il pane, non si curavano per l'innanzi di sapere quanto passa in Europa, facciano ora attenzione alla guerra presente e ragionino alla loro foggia, circa li motivi che l'hanno accesa. Massime di governo, costituzione, distinzion de' poteri, sovranità del popolo erano termini una volta solo cogniti a quegli uomini che si dedicavano allo studio della politica; ma in adesso sono sulle labbra di qualunque ceto di persone, e la Rivoluzione Francese opera insensibilmente un'altra egualmente pericolosa rivoluzione nella maniera universale di pensare" (Die Relationen..., p. 340). In queste pagine si coglie netto lo smarrimento di un uomo dell'ancien régime di fronte ad eventi politici e sociali che stavano dissolvendo valori e certezze consolidati da secoli.

Tornato a Venezia, il D. entrò nel Consiglio dei dieci (ove un suo avversario lo accusò di essersi comportato con "imbecillità"); fu più volte savio di Consiglio (1793, 1795, 1796), trovandosi in prima linea nei drammatici giorni della caduta della Serenissima: il 15 marzo 1797 propose al Senato una confederazione con la Francia e l'aggregazione al Maggior Consiglio di duecento inviati della Terraferma (in sostanza la vecchia proposta del Consiglio politico di Scipione Maffei); ma era ormai troppo tardi per salvare la Repubblica. Con una decisione invero sorprendente, e che non a torto i biografi Leonardo Dolfin e Girolamo Dandolo considerano poco favorevole alla sua reputazione, il D. - che ancora nel 1793 riteneva quasi "impossibile che una nazione [la Francia] tanto colta che si credeva tanto dolce di costumi e di maniere, e così ammorbidita dal lusso abbia potuto trascorrere a sì gravi eccessi" - aderì alla neonata Municipalità democratica, come membro del Comitato di sanità. Nei pochi tumultuosi giorni di vita di questo fragile governo egli si occupò dei provvedimenti a favore degli ex nobili poveri, della consegna ai Francesi delle carte degli ex inquisitori di Stato, di questioni militari e finanziarie minori e venne anche incaricato di istituire la Municipalità democratica a Raspo in Istria. In questo consesso così vivacemente dominato dai rappresentanti della borghesia giacobina e filofrancese, dovette sentirsi fuori posto, lui vecchio aristocratico reduce dai vertici politici della Repubblica. Dopo essere stato incluso tra gli ostaggi consegnati al gen. A. Balland, si adeguò alla parabola di tanti ex patrizi e dopo Campoformio accolse con favore gli Asburgo: con Alvise Mocenigo fu eletto deputato l'11 nov. 1797 a rendere omaggio al nuovo governo ed il 9 dicembre venne nominato successore di Giovanni Bujovich nella presidenza provvisoria della Municipalità "pour le bien en service de Sa M.té". Ricchissimo e senza eredi (il figlio Zanetto e la figlia Bianca gli erano infatti premorti), il D. visse i suoi ultimi giorni tra il palazzo di S. Pantalon, ornato delle battaglie romane del Tiepolo, e quello di Padova, dove morì nel 1798. Con lui si estinse il ramo dei Dolfin di S. Pantalon; un suo ritratto, di Pietro Longhi, è conservato alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato Dispacci Francia, filze 258-261 (un dispaccio sull'invenzione dell'aerostato fu stampato per nozze a Venezia nel 1780); Ibid., Dispacci Germania, filze 290-294; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., VII, 926 (= 8595): M. Barbaro, Genealogia delle famiglie patr. venete, II, c. 274; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P. D., C903; Ms. Donà dalle Rose 421, fasc. IV; Mss. P. D., 255-b-256-b; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Codd. misc., 1644; Milano, Bibl. Trivulziana, Codd., 1461; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni. Studi stor., Venezia 1855, pp. 108 s.; S. Romanin, Storia docum. di Venezia, VIII, Venezia 1859, pp. 492-513; IX, ibid. 1860, pp. 453-456; X, ibid. 1861, pp. 31 ss.; Die Relationen der Botschafter Venedigs über Osterreich im achtzehnten Jahrhundert nach den Originalen herausgegeben, a cura di A. Ritter Arneth, in Fontes rerum Austriacarum. Österreichische Geschichts-Quellen, II, 22, Wien 1863, pp. 325-353; L. Dolfin, Una famiglia storica: i Dolfin attraverso i secoli, Genova 1904, pp. 51 ss.; B. G. Dolfin, I Dolfin (Delfino) patrizii venez. nella storia di Venezia dall'anno 452al 1923 con la raccolta delle iscrizioni a loro riguardanti, Milano 1924, pp. 185-188; P. Molmenti, Epistolari venez. del secolo XVIII, Milano-Palermo-Napoli 194, pp. 8, 82 s., 87; Id., Carteggi casanoviani, Milano-Palermo-Napoli 1919, p. 245; A. A. Bernardy, La missione di Beniamino Franklin a Parigi nei dispacci degli ambasciatori venez. in Francia, in Arch. stor. ital., LXXVIII (1920), pp. 237-262; Verbali delle sedute della Municipalità provvisoria di Venezia 1797, I, Sedute pubbliche e private, a cura di A. Alberti - R. Cessi, Bologna 1928-1929, pt. 1, pp. XVIII, XLVII, 13-16, 35, 66, 140, 149, 207, 251, 304, 323, 325, 656; pt. 2, pp. 156, 164, 353, 504, 506 s., 525, 530 s., 540 ss., 541, 543, 545, 576, 580 s., 596, 609, 627; II, Comitati segreti e docum. diplom., ibid. 1932, pp. II s., 14, 21, 47, 49, 56, 70, 72, 92, 113 ss., 137, 141, 222 s.; III, Documenti diplomatici, Indici, ibid. 1940, pp. 67, 83; Idem, Appendice. Le "Annotazioni" di Francesco Calbo alle sedute dei Consigli dei rogati (1785-1797), a cura di R. Cessi, Bologna 1942, pp. 69, 127, 185, 200 s., 223-227, 232, 236, 242-245, 257 s., 261; Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, s. 3, (Sec. XVIII), Francia a cura di R. Moscati, Milano 1943, pp. XXXVI s., 175-189 (questa relazione di Francia, dopo un'edizione parziale del 1845, fu stampata integralmente per nozze Cittadella-Dolfin nel 1848, da S. Romanin, pp. 492-518, e L. de Mas-Latrie, Rapport sur la correspondance des ambassadeurs vénitiens résidents en France, conservée aux Archives de Venise, in Archives des missions scientifiques et littéraires, s. 2, III [1866], pp. 429-456); E. Bonnal, Chûte d'une Republique. Venise, Paris 1885, pp. 296, 300; A. F. Guidi, Relaz. culturali fra Italia e Stati Uniti d'America, Padova 1940, p. 48; M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956, pp. 3, 150; P. S. Orsi, Gliambasciatori veneti e la lotta per l'indipendenza degli Stati Uniti d'America, in Ateneo veneto, s. 4, CXLV (1961), pp. 85-98; G. Torcellan, Ballarini, Luigi, in Dizionario biografico degli Italiani, V, Roma 1963, pp. 568-570; G. Cozzi, Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale veneto nel Settecento, in Sensibilità e razionalità nel Settecento, a cura di V. Branca, II, Firenze 1967, pp. 381, 385 s.; F. Ambrosini, L'immagine di nuovo mondo nel Settecento veneziano, in Arch. veneto, s. 5, XCIX (1973), pp. 85, 92 s., 101 s.; Id., Un incontro mancato: Venezia e Stati Uniti d'America (1776-1797), ibid., CV (1975), pp. 9-25; P. Del Negro, Il mito americano nella Venezia del Settecento, in Atti d. Accad. naz. d. Lincei, classe di sc. morali, storiche, e filologiche, s. 8, XVIII (1975), 6, pp. 531, 536 s., 547 s.; G. Gullino, La congiura del 12 ott. 1797 e la fine della Municipalità venez., in Critica storica, XVI (1979), pp. 564, 579; G. Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell'aristocrazia senatoria a Venezia, Udine 1980, pp. 70, 75, 106, 115 s., 191 s.; G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al sec. XVIII, Torino1982, p. 363; G. Benzoni, Vienna nelle relazioni degli ambasciatori veneziani, in Venezia Vienna, a cura di G. Romanelli, Milano 1983, pp. 9, 20 ss., 24; F. Trentafonte, Giurisdizionalismo illuminismo e massoneria nel tramonto della Repubblica Veneta, Venezia 1984, pp. 84, 89, 98 s.

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