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giovare

di Antonio Lanci - Enciclopedia Dantesca (1970)
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giovare

Antonio Lanci

Ricorre con una discreta frequenza nel Convivio e nella Commedia; una sola volta nelle Rime. Ha generalmente il significato originario di " aiutare ", quindi " arrecare vantaggio ", " procurare beneficio ", " essere utile ". In questa accezione, lo si trova costruito talvolta transitivamente (come il latino iuvare): Cv II 16 intendo... giovare per questa [opera, cioè il Convivio] quella [la Vita Nuova]; Pg XXII 68 Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova. Intransitivo in Cv I VIII 3 dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, e 4 (due volte). In Pg XIII 147 col priego tuo talor mi giova, il mi può valere " me " o " a me ": in ogni caso il senso di " aiutare ", " essere utile " è evidente.

Spesso g. è costruito assolutamente: Rime CVI 42 tu [la Virtù] se' possession che sempre giova; Cv IV XXIV 1 la seconda [età] si chiama Gioventute, cioè etade che puote giovare ', cioè perfezione dare; e ancora: Cv III Amor che ne la mente 51 (ripreso in XIV 13), IV IX 7. Non è raro l'uso impersonale, nel senso di " è di vantaggio ", " è utile ": I f IX 97 Che giova ne le fata dar di cozzo?; XIII 134 che t'è giovato di me fare schermo ?; e così pure in Cv IV IX 17 (in un'integrazione accolta nella '21: cfr. la nota di Busnelli-Vandelli, che leggono fa, come la Simonelli), If XXVII 84, Pg XXVI 3.

In alcuni luoghi della Commedia, il verbo vale " piacere ", " dare diletto " (If XVI 84 quando ti gioverà dicere " I' fui ", " ti diletterà " [Boccaccio]), secondo un'accezione comune al latino (cfr. Aen. I 203 " haec olim meminisse iuvabit ") e non infrequente nel lessico trecentesco; così anche in Pd VIII 137 perché sappi che di te mi giova; e IX 24 seguette come a cui di ben far giova.

Controversa l'interpretazione del verbo in Pg IV 54 A seder ci ponemmo ivi ambedui / vòlti a levante ond'eravam saliti, / che suole a riguardar giovare altrui, la quale dipende strettamente dal valore che si attribuisce al che iniziale del v. 54. I commentatori antichi leggevano, in genere, ché, e spiegavano così: " perché rivolgendoci noi a riguardare il cammino che fatto abbiamo salendo, ne suole apportar giovamento e diletto e ne fa parer dolce la durata fatica " (Daniello); " e moralmente, chi ha preso la via de la virtù e rivolge la mente a considerar la passata viziosa vita, si riconforta e dispone a volerla del tutto fuggire et a seguitar la via principiata " (Vellutello). Dunque, stando a questa interpretazione, giovare vale, in sostanza, " piacere ", " arrecare diletto ". La lezione ché, con la suddetta interpretazione di g., è accolta, ira i moderni, dal Torraca, dal Sapegno, dal Bosco (cfr. D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 123). Lo stesso significato di " piacere " Si attribuisce al verbo, intendendo che come pronome relativo neutro, riferito a ond'eravam saliti: " suol dare piacere il guardare il luogo da cui si è saliti " (Porena). Diversamente, altri interpreti, a cominciare dall'Andreoli, seguito, fra gli altri, dal Barbi (Problemi I 221, 246-247), Casini-Barbi, Vandelli, Mattalia, riferiscono il che a levante e intendono: " giova all'uomo guardare a oriente, inquantoché ciò gli ricorda il suo Dio " (Andreoli): infatti, come documenta ampiamente M. Barbi, nel Medioevo era considerato di buon auspicio il guardare a oriente (cfr. Pg VIII 11). Secondo questa interpretazione, come precisa ancora il Barbi, g. vale " essere utile ". Il senso dell'intera questione ci sembra bene riassunto dal Chimenz: " La 18 interpretazione è certo più aderente alla situazione, anche dal punto di vista morale (considerare le difficoltà superate giova a rafforzare la volontà dell'ascesa). La 2ª è più immediatamente suggerita dalla stessa sintassi del periodo; ma l'allusione religiosa, sebbene non inopportuna (un tacito atto di ringraziamento a Dio, dopo la fatica dell'ascesa), tuttavia non bene s'inserirebbe nello svolgimento naturale del racconto, e inoltre, così come risulterebbe formulata, senz'altro sviluppo o chiarimento, riuscirebbe piuttosto enigmatica ". Inoltre, a sostegno della prima interpretazione, da cui si ricava il valore di g. come " piacere ", è da rilevare, col Porena, che " se Dante è volto verso levante, ci dirà subito (v. 55) che però i suoi occhi non guardano il levante ma i bassi liti ".

Analogo il problema interpretativo riguardante Pg XXI 63 De la mondizia sol voler fa prova, / che, tutto libero a mutar convento, / l'alma sorprende, e di voler le giova. Alcuni commentatori intendono giova come " piace ", " dà diletto ": " delectat ipsam animam velle mutare conventum " (Benvenuto, e con lui numerosi altri: fra i moderni, Torraca, Vandelli, Mattalia). Diversamente secondo il Porena, " è efficace a farla salire senz'altro "; e così il Lombardi, l'Andreoli, Sapegno, Chimenz, ecc. Non ci sembra ci siano elementi concettuali sufficienti per decidere a favore dell'una o dell'altra interpretazione; tuttavia la prima è senz'altro avvalorata dal raffronto con gli altri due casi (Pd VIII 137 e IX 24) in cui g., costruito come nel passo in questione, ha il significato di " piacere ", " dilettare ".

Vocabolario
giovare
giovare v. intr. e tr. [lat. iŭvare] (io gióvo, ecc.). – 1. a. intr. (aus. avere; con sogg. di cosa anche essere) Recare utilità, beneficio, essere vantaggioso: il moto giova alla salute; sono rimedî che giovano poco; a nulla mi è giovato...
giovaménto
giovamento giovaménto s. m. [dal lat. tardo iuvamentum, der. di iuvare «giovare»]. – L’atto, il fatto di giovare; e più comunem., utilità, beneficio, vantaggio che si ottiene da qualche rimedio: dare, recare, ottenere, trarre, trovare g.;...
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