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LIBANO

di Sergio Di Giorgi - Enciclopedia del Cinema (2003)
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Libano

Sergio Di Giorgi

Cinematografia

Dopo aver mosso i primi passi negli anni Quaranta con i due lungometraggi di finzione di Ali al-Ariss, Bayyā῾at al-ward (1943, La fioraia) e Kawkab, amīrat al-Ṣaḥrā᾽ (1946, Kawkab, principessa del deserto), solo a partire dagli anni Cinquanta la cinematografia libanese cominciò a registrare una crescita significativa, anche sul piano produttivo. Vi contribuirono, da una parte, opere ispirate ai modelli del musical e del melodramma egiziani e, dall'altra, film realizzati da registi formatisi culturalmente e professionalmente durante il governatorato francese (conclusosi nel 1944 con la proclamazione dell'indipendenza del Paese) e che dunque risentivano del gusto tipico dei colonizzatori europei. Tra questi cineasti vanno citati autori come Georges Kahi (o Qa῾i, Qalbān wa ǧasad, 1954, Due cuori e un corpo), Michel Harun (al-Zuhūr al-h̠amrā᾽, 1957, Le rose rosse), Georges Nasr (Ilā ayn, 1957, Dove andare, il primo film libanese a essere presentato al Festival di Cannes).Gli anni Sessanta segnarono il vero boom della produzione cinematografica libanese (oltre 100 film realizzati nel decennio), ma anche dell'esercizio cinematografico: nel 1965 vi erano 180 sale in piena attività, anche se l'offerta restava dominata da film d'importazione, soprattutto provenienti dagli Stati Uniti. Questa escalation produttiva, sostenuta ovviamente dall'impetuoso sviluppo economico del Paese, venne fortemente influenzata anche dagli effetti della nazionalizzazione del settore cinematografico operata da Nasser in Egitto. Tale fenomeno spinse a emigrare in L. un gran numero di registi egiziani (tra i quali Youssef Chahine e Henri Barakat), ma anche tecnici e vedettes dello spettacolo, alimentando il conseguente rilancio dei poli produttivi e distributivi privati libanesi. D'altra parte, la cinematografia egiziana, notoriamente la più feconda del mondo arabo, era stata da tempo sostenuta nella sua espansione verso i mercati stranieri da numerosi distributori di origine libanese.La cooperazione tra Egitto e L. in campo cinematografico si sviluppò in massima parte nel segno della commedia musicale, genere popolare per eccellenza (però sapientemente mescolato ad altri stili, come il film in costume e la satira sociale), sfruttando anche il richiamo di popolarità di grandi star della canzone egiziana come Nour el-Hoda e Sabah, ma anche libanesi, come la cantante Feyrouz. Quest'ultima è la protagonista di Bayyā ῾al-h̠awaṭim (1965, Il venditore di anelli) di Y. Chahine, di Safar barlak (1965) e di Bint al-ḥāris (1968, La figlia del guardiano) di H. Barakat; film che utilizzavano le musiche dei compositori di Feyrouz, i fratelli Assi e Mansour Rahbani. A distinguersi nel genere furono però anche diversi registi libanesi, come Mohammed Selmane che, sempre ispirandosi ai modelli della commedia popolare egiziana, realizzò ben quindici film tra il 1963 e il 1966, tra cui Badawiyya fī Bārīs (1964, Una beduina a Parigi), con la cantante Samira Taufic. Ma, dalla metà del decennio, avevano iniziato a imporsi anche film decisamente meno commerciali, che mostravano le contraddizioni sociali del Paese o che cercavano di riflettere sulla questione palestinese. Così Kary Karabidyan (o Gary Garabédian), cineasta di origine armena scomparso tragicamente sul set di un suo film (Kulluna fidā᾽iyyūn, 1968, Siamo tutti combattenti), girò Garo (1965), il primo film neorealista libanese, che narra le vicende di un emigrato armeno costretto dalla miseria a diventare un criminale. In quegli anni fu attivo anche Antoine Mechawar, documentarista e regista sperimentale, poeta, scrittore e pittore, scomparso, pressoché sconosciuto, nel 1975 e autore di opere documentarie che solo successivamente sono state riscoperte, come Baalbeck de l'autre côté du miroir (1962).La sconfitta degli arabi da parte di Israele nella guerra dei Sei giorni (1967) e il progressivo ritorno in patria dei registi egiziani, segnò, sul finire degli anni Sessanta, il tramonto di un'epoca, quella dello sviluppo economico del Paese e della sua nascente industria cinematografica. Gli anni Settanta si aprirono nel segno di una grande instabilità sociale e politica sfociata poi nella lunghissima guerra civile che, iniziata nell'aprile 1975 e durata sino al 1990, avrebbe causato oltre centomila morti e seicentomila feriti. Ma proprio in quegli anni emerse una nuova leva di cineasti, uomini e donne, destinati a lasciare il segno per lungo tempo, tanto nella fiction quanto nel documentario: tra questi Borhane Alaouié, Jocelyne Saab, Heiny Srour, Jean Chamoun, Randa Chahal Sabbag, Maroun Baghdadi. Formatisi per lo più in Europa presso prestigiose scuole di cinema (l'IDHEC di Parigi; l'INSAS di Bruxelles: v. Belgio), gli esponenti di questa generazione avevano comunque vissuto la stagione della disillusione del mondo arabo, ed erano stati richiamati in patria dal tragico sviluppo degli eventi, rivelando subito una forte propensione all'impegno politico e sociale. Kafr Qāsim (1974) di B. Alaouié (coproduzione siro-libanese) è un film vibrante e poetico, che ricostruisce, tra fiction e documento, il massacro compiuto dai soldati israeliani contro la popolazione del villaggio palestinese di Kafr Qāsim nel 1956. Sempre nel 1974 Baghdadi (diplomato all'IDHEC) esordì nel lungometraggio di fiction con Bayrūt yā Bayrūt (Beirut, oh Beirut): attraverso l'itinerario privato e ideologico di quattro giovani libanesi che simboleggiano lo scontro tra le diverse comunità civili e religiose del L., il film condensa le emozioni legate a una fase storica decisiva per il Paese, dal dicembre 1968 (raid israeliano sull'aeroporto di Beirut) alla morte del presidente egiziano Nasser nel settembre del 1970, proponendosi come opera fortemente premonitrice (non a caso la prima e ultima proiezione pubblica avvenne due giorni prima dello scoppio della guerra civile). Baghdadi sarebbe in effetti diventato, sino alla prematura scomparsa nel 1993, il principale punto di riferimento del cinema libanese e una delle voci più autorevoli del nuovo cinema del mondo arabo, per la finezza stilistica e la sensibilità poetica, e per l'analisi lucida delle pulsioni scatenate dalla guerra fratricida (specialmente tra le giovani generazioni), come nella sua seconda opera Ḥurūb ṣaġīra (1982, Piccole guerre), dove un adolescente è costretto dalla morte del padre ad assumere precocemente il ruolo di capofamiglia e di combattente. Il film, presentato nel 1983 nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes, fu l'ultimo girato da Baghdadi in patria. L'invasione del L. meridionale da parte degli israeliani (1982), i massacri nei campi profughi palestinesi, l'apertura di un nuovo fronte di guerra, da allora endemico, tra le milizie islamiche e Israele nel Sud del L., fecero precipitare gli eventi. Baghdadi, insieme ad altri registi, decise di tornare a Parigi a cercare, nell'esilio, la distanza necessaria per continuare a parlare del suo Paese, sia pure attraverso la finzione. Con mezzi tecnici ben più rilevanti e un cast francese di tutto rispetto (tra cui Michel Piccoli) sarebbe tornato di fatto al cinema solo nel 1987 con L'homme voilé, una coproduzione franco-libanese che ritrae efficacemente la scissione schizofrenica di un medico che, tornato in Francia per stare vicino alla giovane figlia, dopo quattro anni di volontariato in L. per conto di un'associazione umanitaria, scopre di essere cambiato profondamente in seguito a quella tragica esperienza. In chiave documentaria, Baghdadi dedicò all'attività in L. dell'associazione Médecins sans frontieres un intenso reportage, intitolato Lubnān balad al-῾asal wa-᾽l-bah̠ūr (1987, Il paese del miele e dell'incenso).La duplice tragedia di un esilio imposto dalla guerra, condizione comune a tanti cineasti del mondo arabo e che salda la vicenda umana e artistica dei registi libanesi e palestinesi, ha costituito il filo conduttore del cinema libanese per tutto il periodo della guerra, e anche successivamente. Pur vivendo per lo più in Europa, tali cineasti sono stati i testimoni più autorevoli di quel conflitto e della rovina progressiva di una città incantevole, quale Beirut. È stato questo il percorso cinematografico della regista Saab, sin dai suoi primi documentari (Lubnān fī ᾽l-āṣifa, 1975, Libano nella tormenta; Beyrouth, ma ville, 1982); ma anche, qualche anno dopo, della Chahal Sabbag, il cui primo documentario, H̠aṭwa h̠aṭwa (Passo dopo passo), è del 1979. L'emergere di uno sguardo al femminile dietro la macchina da presa era del resto il segno concreto del nuovo ruolo, privato e politico, delle donne nella società libanese, già documentato dalla Srour nel 1974 in Sā῾at al-taḥrīr daqqat barra yā isti ῾mār (L'ora della liberazione è suonata, fuori i colonialisti). Sempre la Srour avrebbe in seguito fornito un penetrante ritratto della condizione femminile in una fiction stilisticamente molto raffinata, Layla wa al-di᾽āb (1984, Leila e i lupi).Gli anni Novanta si sono aperti con la fine di una guerra durata quindici lunghissimi anni, e, in campo cinematografico, ancora nel segno di Baghdadi che al Festival di Cannes del 1991 ha ottenuto il premio della giuria con Ḫāriǧ al-ḥayāt (La vita sospesa, unico suo film distribuito in Italia). L'ambiguo intreccio psicologico indotto dalla guerra torna ancora una volta in questo film, ambientato negli anni Ottanta, dal ritmo e dalle atmosfere ora vorticose ora rarefatte, che vede protagonista un fotoreporter francese (Hippolyte Girardot) preso in ostaggio a Beirut da una delle tante milizie di combattenti islamici. Ciò che ormai più interessa al regista è mostrare l'assenza di senso (che sfugge persino agli stessi miliziani) della guerra e denunciare il business mediatico intorno a essa (tema di grande attualità nell'anno della guerra del Golfo): nell'oscurità della prigionia, il reporter subisce la violenza ma anche il fascino dei suoi sequestratori e la sua reclusione diviene simbolicamente quella che il popolo libanese aveva vissuto, aggravata dalla totale incomunicabilità tra un Paese ormai abbandonato al degrado morale e materiale e il mondo cosiddetto civile. Mentre Baghdadi girava in Francia il suo ultimo film, il più estraneo alle vicende libanesi, La fille de l'air (1992), Jean Chamoun introduceva elementi di fiction nel suo Ah̠lām mu'allaqa (1992, Sogni sospesi), lungo, intenso e significativo percorso documentario sul dramma dei rifugiati palestinesi in L., compiuto per lo più insieme alla sua compagna, la regista di origine palestinese Mai Masri.Nel corso del cammino verso la pacificazione nazionale e la ricostruzione ‒ che solo all'inizio del 21° sec., con il ritorno massiccio degli investimenti stranieri, ha assunto ritmi vorticosi e persino preoccupanti per la futura identità del Paese ‒ la sfida dei cineasti libanesi negli anni Novanta è consistita in primo luogo nel recupero della memoria, in un Paese che mostrava una forte volontà di rimozione. In quest'ottica si è mossa R. Chahal Sabbag che con Ḥurūbina al-ta᾽iša (1995, Le nostre guerre imprudenti, premiato alla Terza biennale delle cinematografie arabe di Parigi nel 1996), ha saldato una duplice memoria: le immagini di Beirut durante la guerra (girate in 16 mm) e quelle (girate in video) della sua famiglia. Uno sforzo tenace contro la tentazione dell'amnesia collettiva ha caratterizzato anche la nuova generazione di cineasti che, in più di un caso, è riuscita a riscuotere un notevole successo in patria e presso la critica internazionale. Tra questi, va citato in primo luogo Ziad Doueiri (o Daouri, già assistente di Quentin Tarantino), che nell'intenso e autobiografico West Beirut (1998) è tornato alle vicende dell'aprile del 1975 e alla giovinezza di una generazione travolta dallo scoppio della guerra. Mescolando abilmente dramma e commedia generazionale, in uno stile morbido e avvolgente, perfettamente aderente allo sguardo dell'adolescenza, il regista ha rievocato il suo passato attraverso le gesta di tre amici, due musulmani e un cristiano, seguendo la loro crescita negli anni del conflitto: all'inizio la guerra è per loro solo un gioco (come attraversare la linea di demarcazione tra le due parti della città, oppure la scoperta eccitante della violenza, del sesso, ma anche l'amore tra ragazzi di diversa cultura e religione); ben presto però tutto diventa straordinariamente triste e complicato, mano a mano che la tensione e l'odio iniziano a dividere le loro rispettive famiglie. Tra memoria e disincanto si muove invece Beyrouth fantôme (1998) di Ghassan Salhab, dove il protagonista, dopo un'assenza di dieci anni, durante la quale era scomparso assumendo una nuova identità, torna a Beirut per constatare la perdita irrimediabile degli affetti e delle amicizie, tema che ricorrerà nel successivo Terra incognita, presentato nel 2002 nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes. Ancora indietro negli anni è andata R. Chahal Sabbag che ha ambientato nella Beirut del 1981 il suo Civilisées (1999), offrendo un ritratto dello spirito del tempo, in particolare delle classi subalterne, soprattutto immigrati rimasti nella città a presidiare i lussuosi palazzi abbandonati dalla ricca borghesia cittadina rifugiatasi in Europa. Il tocco surreale della regista nel descrivere la realtà quotidiana della guerra, la sua violenza e assurdità, e la carica volutamente provocatoria e oscena del film, sono stati alla base dell'accanimento censorio. Nonostante, o forse anche a causa del premio Unesco vinto alla Mostra del cinema di Venezia, il film (una coproduzione franco-libanese) è stato infatti amputato di ben 47 minuti e messo al bando in patria.Ma se la censura governativa, composta per lo più da figure legate agli ambienti militari, allarma i registi, anche l'assenza di aiuti pubblici all'industria cinematografica costringe i giovani autori a fare la spola tra Beirut e le capitali europee alla ricerca di finanziamenti per i loro progetti. Soltanto grazie al sostegno francese (Fonds Sud, CNC, reti televisive private come Arté o Canal Plus) e a quello dei programmi euromediterranei, si è potuta realizzare una dozzina di lungometraggi dalla fine della guerra (mentre è molto più copiosa la produzione di cortometraggi e di video a opera di una nutrita schiera di giovani filmmakers). Tuttavia, nonostante questo quadro poco incoraggiante, il cinema libanese è stato oggetto negli ultimi anni di un vasto processo di riscoperta critica, come testimoniato da alcune ampie retrospettive, in particolare quelle curate dall'Institut du monde arabe di Parigi.

Bibliografia

Il cinema dei paesi arabi, a cura di A. Morini, E. Rashid, A. Di Martino, A. Aprà, Venezia 1993, pp. 135-43.

G. Gariazzo, Breve sconfinamento nel Machrek, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 4° vol., Americhe, Africa, Asia, Oceania. Le cinematografie nazionali, Torino 2001, pp. 452-54 e 1222-223.

K. Kennedy-Day, Cinema in Lebanon, Syria, Iraq and Kuwait, in Companion encyclopedia of Middle Eastern and North African film, ed. O. Leaman, London-New York 2001, pp. 371-89.

Vedi anche
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Vocabolario
libàno
libano libàno s. m. [dall’arabo libān «canapo, corda», o dall’ant. nordico līk-band, comp. di līk «orlo della vela» e band «legame, nodo»; cfr. fr. liban, provenz. ant. liban(t)]. – Corda vegetale, fatta di fibre intrecciate e non ritorte,...
lìbito
libito lìbito s. m. [dal lat. libĭtum, part. pass. neutro di libere «piacere»], letter. – Ciò che piace; voglia, piacere, arbitrio: A vizio di lussuria fu sì rotta, Che libito fe’ licito in sua legge (Dante). Locuz. avv. a libito, a piacere,...
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