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PARADOSSO

di Goffredo COPPOLA - Guido CALOGERO - Eugenio Giuseppe TOGLIATTI - - Enciclopedia Italiana (1935)
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PARADOSSO

Goffredo COPPOLA
Guido CALOGERO
Eugenio Giuseppe TOGLIATTI

. L'aggettivo greco παράδοξος designa in genere tutto ciò che soverchia e contraddice la δόξα, nel suo significato più corrente di "opinione comune": sostantivato, τὸ παράδοξον è quindi lo "straordinario", l'"eccezionale". Da questo significato più generale del vocabolo (che non si riferisce al significato tecnico assunto, fin dagl'inizî del sec. V a. C., dal termine δόξα, nel campo filosofico) deriva la denominazione di "paradossografi" applicata agli scriptores rerum mirabilium. Ma, per quanto diverso, neanch'esso derivato dal senso filosofico del termine δόξα è il primo uso che di παράδοξον sia stato fatto nel campo stesso della filosofia, e cioè quello per cui gli stoici designarono come παράδοξα (donde, p. es., il titolo dei Paradoxa di Cicerone) le tesi, specialmente etiche, che immediatamente apparivano contrastanti all'esperienza comune (p. es. quella che il dolore non fosse un male). Questo significato si è mantenuto vivo anche nell'età moderna: "paradossale" è, in tal senso, ogni verità filosofica che immediatamente colpisca e sorprenda la comune opinione degli uomini, o anche la stessa tradizione speculativa di fronte alla quale essa si afferma; per quanto poi, controllata nella sua fondatezza logica, essa possa apparire plausibile, ed anzi più plausibile di quella rispetto a cui essa si presenta in un primo tempo come paradossale.

Accanto a questo significato più generico si è d'altronde venuto determinando, nell'età moderna, quello più tecnico per cui il "paradosso" non soltanto contrasta all'opinione comune o a quella di una tradizione speculativa che in virtù degli stessi argomenti in esso impliciti possa essere superata, ma resta comunque in irriducibile antitesi rispetto a un più vasto, o diverso, sistema di verità, che esso contraddice ma non può abbattere, pur non potendo esserne abbattuto. "Paradossi" in questo senso (per quanto così non li designasse il loro autore, il quale vedeva in essi soltanto il contraddittorio ed assurdo risultato di una concezione della realtà che egli con ciò intendeva di dimostrare falsa) sono p. es., per risalire al caso più antico e classico, gli argomenti arrecati da Zenone d'Elea contro la molteplicità e il movimento.

Paradossi matematici.

In senso lato, ed abusivo, i matematici parlano anche di paradossi nel senso di sofismi, cioè di proposizioni, evidentemente non vere, che si dànno come conclusioni di dimostrazioni di aspetto rigoroso, ma che in realtà contengono qualche vizio.

Varî esempî di sofismi matematici sono stati esposti in altra voce (v. giuoco: Giuochi matematici).

Ricordiamo qui solo che causa dell'errore può essere, ad es., una figura geometrica male eseguita e inesatta (come quando si trova che qualsiasi angolo ottuso è uguale a un angolo retto, o che ogni triangolo è isoscele, ecc.). oppure l'esecuzione d'una divisione per zero o di qualche altra operazione algebrica non lecita (come quando si trova che 1 = 2 0 che 1 = − 1, o che due numeri reali qualunque sono uguali tra loro, ecc.). Causa dell'errore può essere anche una definizione logicamente non corretta; così, chiamando media di due numeri razionali

il numero razionale

si avrebbe che la media di

sarebbe

ma, essendo

tale media sarebbe anche

onde

qui l'errore sta nell'aver definito per due numeri razionali un'operazione il cui risultato dipende anche dalla rappresentazione formale dei due numeri. In tutti questi casi la scoperta dell'errore è di solito abbastanza facile, e ha più che altro valore di esercitazione didattica. Ai sofismi anzidetti si possono avvicinare i ragionamenti e le costruzioni, con cui taluni pretendono, oggi ancora, di risolvere i problemi classici della geometria (duplicazione del cubo, trisezione dell'angolo, rettificazione e quadratura del cerchio); se essi adoperano solo la riga e il compasso sono certo in errore, perché le costruzioni con riga e compasso, usati un numero finito di volte, possono dare di quei problemi soltanto delle soluzioni più o meno approssimate (v. compasso); se ricorrono ad altri mezzi sono in equivoco.

Assai più interessanti sono i paradossi matematici propriamente intesi, i quali non vanno giudicati con criterio soltanto logico, e respinti a priori, bensì vanno considerati da un punto di vista che ne faciliti e renda comprensibili la spiegazione e l'accettazione. Ricordiamo anzitutto i cosiddetti paradossi dell'infinito. Il concetto dell'infinito matematico, contenuto già nelle circostanze che ad ogni numero naturale ne segue immediatamente un altro, o che una retta si può prolungare illimitatamente, si è presentato fin dai tempi più remoti, dando luogo a lunghe discussioni. Tra i più antichi paradossi in cui compare la nozione dell'infinito va ricordato, oltre ai primi due dei ben noti argomenti di Zenone contro il moto (v. infinito: L'infinito nella storia della fisica e della matematica), il paradosso della ruota di Aristotele: dati due cerchi concentrici rigidamente collegati, se il più piccolo rotola sopra una retta r, l'altro scorre anch'esso lungo una retta s parallela ad r; dopo che i due circoli hanno ruotato d'un angolo retto, due loro quadranti son venuti a scorrere lungo due segmenti uguali di r e di s rispettivamente; perciò due quadranti dei due circoli, e quindi anche i circoli stessi, sono uguali in lunghezza.

La spiegazione, che Aristotele non è riuscito a dare, si trova in Galileo, il quale considera tre ruote concentriche, non più circolari bensì poligonali regolari ed omotetiche fra loro; si vede allora bene che, se si fa rotolare su di una retta la ruota di mezzo, in modo che i suoi lati si dispongano l'uno consecutivamente all'altro, quelli della ruota esterna vengono in parte a sovrapporsi, e quelli della ruota interna si staccano distanziandosi tra loro. Il ritorno alle ruote circolari si fa aumentando illimitatamente il numero dei lati delle ruote poligonali; e così le particolarità sopra rilevate vengono sostituite da uno slittamento, o in un senso o nell'altro, che accompagna la rotazione.

Le discussioni sull'infinito matematico si intensificano nel sec. XVII durante il sorgere e il costituirsi dell'Analisi infinitesimale (v. infinitesimale, analisi), ad es. intorno alla natura degl'indivisibili mediante i quali B. Cavalieri componeva linee, superficie, solidi; ed è solo verso la metà del sec. XIX che, con L.-A. Cauchy, le nozioni fondamentali dell'analisi infinitesimale hanno ricevuto un assetto chiaro e definitivo.

La teoria delle serie è ricca di paradossi. Così, partendo dalla formula

che vale quando − 1 〈 a 〈 1, e ponendovi invece a = 2, si trova che la somma 1 + 2 + 4 + 8 + ... di infinite quantità positive vale il numero negativo −1; ponendovi invece a = −1, si ha la celebre formula di G. Grandi: 1 − 1 + 1 − i + 1 − ... = 1/2: raggruppando in essa i termini a due a due si ha che 0 + o + 0 + ... = 1/2, formula che G. Grandi interpreta come una dimostrazione della potenza dell'infinito, il quale, moltiplicato per 0, produce qualche cosa, come il potere divino che ha creato il mondo dal nulla. A parte tali divagazioni metafisiche, queste discussioni sulle serie divergenti non sono del tutto spregevoli, in quanto contengono un sentimento della continuità che si trova modo di rendere fruttuoso. E vogliamo qui ricordare che se, con E. Cesaro, si definisce come somma della serie a1 + a2 + ... + an + ..., non più il limite per n → ∞ di sn = a1 + a2 + ... + an, ma invece il limite per n → ∞ di (s1 + s2 + ... + sn)/n (che pure coincide col primo, se questo esiste), allora la somma di 1 − 1 + i − ... viene proprio 1/2; e la definizione del Cesaro è solo uno dei tanti modi con cui nell'analisi moderna vengono utilizzate anche le serie divergenti secondo la definizione comune.

Una delle forme più frequenti dell'infinito matematico è nella nozione d'una classe infinita, come quella dei numeri naturali o dei punti d'un segmento. Orbene, per una classe infinita è possibile porre una corrispondenza biunivoca tra gli elementi dell'intera classe e quelli d'una sua parte; così i numeri naturali n corrispondono biunivocamente ai numeri pari 2n, sì che vien da dire che gli uni siano tanti quanti gli altri. Il paradosso che così si presenta, già rilevato da Galileo, e più tardi dal Cauchy, urta contro il principio, che sembra un presupposto logico di validità illimitata, che il tutto è maggiore della parte. La spiegazione contenuta nella teoria di G. Cantor dei numeri transfiniti è ben nota ai matematici: dicendo che due classi infinite hanno la stessa potenza, o lo stesso numero cardinale, quando i loro elementi si possono porre fra loro in corrispondenza biunivoca, si giunge al concetto dei transfiniti cardinali con una astrazione analoga a quella che dalle classi finite conduce ai numeri naturali; partendo invece da classi ordinate più ampie di quella dei numeri naturali si giunge ai transfiniti ordinali; da queste definizioni, come punto di partenza, si riesce proprio a caratterizzare le classi finite come quelle per le quali vale il principio che il tutto è maggiore della parte; sicché la spiegazione dei paradossi citati è da cercare in una validità troppo estesa data abusivamente a quel principio.

Paradossi classici s'incontrano anche nella geometria algebrica. Così il paradosso, detto di Cramer, enunciato senza spiegazione dal Mac Laurin nel 1720, e spiegato poi da Eulero, Cramer, Lamé: n (n + 3)/2 punti del piano determinano una curva algebrica d'ordine n; ma, d'altra parte, per gli n2 punti comuni a due curve piane algebriche d'ordine n, i quali sono in numero non minore di n (n + 3)/2 non appena sia n > 2, passano infinite di tali curve, formanti un fascio. Gli è che quegli n2 punti base del fascio impongono solo n (n + 3)/ 2 − 1 condizioni lineari indipendenti alle curve d'ordine n che li debbono contenere; per cui una di tali curve è individuata da n (n + 3)/2 punti, solo se questi sono generici. Così il paradosso che indusse il Gergonne nel 1827 a ritenere che ordine e classe d'una curva piana algebrica debbano essere uguali tra loro: infatti, poiché una curva piana generale d'ordine n è di classe m = n (n − 1), una curva di classe m sarà d'ordine m (m − 1), sicché una curva d'ordine n risulterebbe anche d'ordine n (n − 1) [n (n − 1) − 1]; la spiegazione, data da Poncelet, è nel fatto che una curva piana generale d'ordine n non è un inviluppo generale di classe m = n (n − 1), ma ha necessariamente delle tangenti singolari che ne abbassano l'ordine da m (m − 1) fino ad n.

Paradossi interessanti vengono pure da computi di costanti (v. costante) non eseguiti con le debite cautele. Ancora: nella geometria degli enti immaginarî, ad es. nel piano, hanno importanza i punti ciclici e le rette uscenti da essi, o rette isotrope (v. cerchio); orbene, due punti distinti qualunque d'una retta isotropa hanno tra loro distanza nulla, e due rette isotrope uscenti da uno stesso punto ciclico sono in pari tempo parallele e perpendicolari; l'aspetto paradossale di questi enunciati proviene dal fatto che l'estensione formale delle regole della geometria analitica dagli enti reali agli immaginarî non è accompagnata da un'analoga estensione delle proprietà intuitive, pur essendo logicamente corretta.

Per mostrare come la comune opinione possa essere di ostacolo all'affermarsi di nuove vedute scientifiche è molto istruttiva la storia della geometria non euclidea (v. geometria; n. 9,32). Le conseguenze a cui logicamente si arriva negando il postulato euclideo delle parallele, ad es. l'esistenza di rette complanari asintotiche l'una all'altra, o la non esistenza di triangoli simili, sono veri e proprî paradossi; ed il contrasto tra le proprietà che essi esprimono e l'ordinaria intuizione geometrica euclidea, così semplice e così vicina ai dati dell'esperienza, è tanto stridente che non vi è da meravigliarsi se la possibilità logica delle geometrie non euclidee ha tardato tanto ad essere accettata. Così G. Saccherî,. nel secolo XVII, non riuscì ad ammettere che l'esistenza di rette complanari asintotiche, anziché una prova della validità del postulato euclideo delle parallele, è invece un teorema d'una nuova geometria; e lo stesso Gauss, che per primo vide la via d'uscita nella secolare questione delle parallele, temeva ancora "gli schiamazzi dei Beoti" (lettera al Bessel del 21 gennaio 1829). Difficoltà analoghe di abbandonare idee salde e ben radicate si sono presentate recentemente nella teoria della relatività, dove la necessità di modificare le opinioni correnti sul tempo, sulla sua misura e sulla massa dei corpi, dava ai fatti della relatività l'aspetto dei più stravaganti paradossi.

Ricordiamo ancora due dei più noti paradossi della fisica elementare: 1. Due guide di legno uscenti da uno stesso punto, e formanti tra loro un angolo acuto, sono ugualmente inclinate sul piano orizzontale; appoggiando su di esse, nel vertice dell'angolo, un corpo costituito da due coni rotondi riuniti per le basi, e variando opportunamente l'angolo tra le due guide e la loro inclinazione, si ottiene l'illusione d'un corpo pesante che, sotto l'azione solo del suo peso, sale invece di scendere; in realtà il centro di gravità del doppio cono si abbassa. 2. Versando un litro d'acqua in ciascuno di varî recipienti aventi uguali i fondi orizzontali, ma diverse le forme, sì che l'acqua salga in essi a diverse altezze, le pressioni sui fondi riescono diverse, pur avendosi nei varî recipienti lo stesso peso di acqua; la pressione sul fondo è infatti cosa ben diversa dal peso del liquido, il quale risulta da tutte le pressioni esercitate non solo sul fondo, ma anche sulle pareti laterali dei recipienti.

Più difficile che in tutti i casi precedenti è la spiegazione di altri paradossi, noti col nome di antinomie della logica, e che toccano addirittura le basi del nostro modo di ragionare; sulle antinomie della logica continuano tuttora le discussioni (v. logica matematica). Talora la spiegazione non è riposta, come nel noto sofisma di G. Peano: Pietro e Paolo sono apostoli; gli apostoli son dodici; dunque Pietro e Paolo son dodici. Qui l'assurdo proviene dall'aver tratto una conclusione da due premesse, la prima delle quali afferma una proprietà d'individui d'una classe, mentre l'altra esprime una proprietà della classe. Ma, per lo più, la spiegazione dei paradossi della logica non è così immediata, e si presta a discussioni. Una delle più note antinomie logiche è quella di J. Richard, che, nella forma modificata di G. G. Berry, si presenta così: qualunque numero naturale si può definire con una frase conveniente; si contino le lettere alfabetiche contenute in tale frase; e si consideri il minimo numero naturale che non si può definire con meno di cento lettere. Ora esso risulta invece definito, da questa stessa frase, con assai meno di cento lettere! Un'altra antinomia è quella di C. Burali-Forti, per la quale si afferma da un lato l'esistenza d'un numero transfinito ordinale w superiore a tutti i transfiniti ordinali, mentre d'altra parte si afferma esistere un transfinito ordinale w + 1 ad esso successivo. Un altro noto paradosso è quello di B. Russell, che, in forma un po' modificata, si può enunciare così: si dividano tutti gli aggettivi, della lingua italiana ad es., in due classi, chiamando autologici quelli che posseggono la qualità da essi indicata ed eterologici quelli che non posseggono la qualità da essi indicata; a che classe appartiene l'aggettivo "eterologico"? Comunque si risponda, si è in assurdo. In altra forma: si chiami procedimento di elementazione ogni operazione che ad una classe faccia corrispondere un individuo; e si consideri la classe E degli individui che si ottengono elementando classi che non contengono sé stesse elementate; elementando E si ottiene un individuo di E o un individuo fuori di E? Comunque si risponda si cade anche ora in contraddizione. Non è possibile riassumere qui le discussioni a cui hanno dato e dànno luogo tuttora le antinomie della logica; solo ricordiamo, come osserva B. Levi, che le antinomie di Burali-Forti e di Russell non si presentano più se si ammette il principio che, assegnato un qualsiasi procedimento univoco di elementazione, esistono aggregati ai quali esso non è applicabile; l'antinomia del Richard pure non s'incontra più se, con un'analisi delicata, si distingue bene tra idee primitive ed idee definite.

Bibl.: W. W. Rouse Ball, Mathematical Recreations and Essays, 10ª ed., Londra 1922, pp. 28, 44, 84; A. de Morgan, A Budget of Paradoxes, voll. 2, Londra 1915; B: Bolzano, Die Paradoxien des Unendlichen, Lipsia 1851; G. Vivanti, Paradossi dell'infinito, in Period. di matem., IV, i (1921), pp. 190-209; F. Enriques e G. de Santillana, Storia del pensiero scientifico, I, Milano 1932, p. 108; B. Levi, Antinomie logiche?, in Ann. di matem., III, xv (1908), pp. 187-216; M. Cantor, Vorlesungen über Geschichte der Mathematik, I, 3ª ed., Lipsia 1907; II, 2ª edizione, Lipsia 1900.

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Vocabolario
paradossare
paradossare v. intr. [der. di paradosso1] (io paradòsso, ecc.), ant. – Enunciare, sostenere dei paradossi.
paradòsso¹
paradosso1 paradòsso1 agg. e s. m. [dal gr. παράδοξος, comp. di παρα- nel sign. di «contro» e δόξα «opinione»; come sost., dal gr. παράδοξον (neutro sostantivato), lat. paradoxum]. – 1. agg. Che va contro l’opinione o contro il modo di...
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