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VILLARI, Pasquale

di Francesco Ercole - Enciclopedia Italiana (1937)
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VILLARI, Pasquale

Francesco Ercole

Storico e uomo politico italiano, nato a Napoli il 3 ottobre 1826, morto a Firenze il 17 dicembre 1917. Dal 1859 al 1865 insegnante di storia nell'univeesità di Pisa; dal 1865 al 1913, insegnante, prima di storia moderna, poi di propedeutica storica, nel R. Istituto di studî superiori di Firenze; dal dicembre 1870 all'ottobre 1876, e dal maggio 1880 al settembre 1882, deputato per i collegi di Guastalla e di Arezzo; dal 1884, senatore; dal febbraio al maggio 1891, ministro della Pubblica Istruzione nel primo gabinetto Rudinì; dal r896 al 1903, presidente della Dante Alighieri; nell'autunnn del 1909, insignito del Collare della Santissima Annunziata.

Passò la giovinezza in un ambiente domestico e scolastico sottilmente pervaso dal non lontano moto nazionale unitario, contraendovi amicizie non più dimenticate, soprattutto con Francesco de Sanctis, il cui influsso sulla sua formazione spirituale e culturale fu decisivio. Col De Sanctis partecipò al moto napoletano del 1848 e fu con lui vittima della reazione borbonica. Nella giornata del 15 maggio, fu arrestato, mentre gli uccidevano sotto gli occhi il suo amico Luigi La Vista, e costretto all'esilio. Visse da allora a Firenze, trascorrendovi, dal '49 al '59, un decennio di intensissima attività di studî negli archivi fiorentini, durante il quale, pure cercando talora sfogo alla sua vocazione sintetica in qualche tentativo a vasto respiro, come, nel '49, nella Introduzione alla storia d'Italia dal cominciamento delle Repubbliche del Medioevo alla riforma del Savonarola, e nel '59, in uno scritto su L'origine e il progresso della filosofia della storia, costrinse la naturale vivacità dell'ingegno e del temperamento meridionale in una dura e austera disciplina di studî metodici, di ricerche documentarie, d'indagini analitiche allo scopo di conquistarsi la preparazione necessaria ad affrontare un problema, che già fin dagli anni napoletani aveva interessato il suo spirito: il problema savonaroliano. Che la fatica fosse utilmente spesa, lo dimostrò, sui primi del 1860, il primo volume della Storia di Gerolamo Savonarola e dei suoi tempi, che bastò a fondare la sua reputazione di storico. Pochi Italiani hanno, durante la seconda metà del sec. XIX, goduto presso il pubblico, anche mediocremente colto, di una così larga e diffusa notorietà e fama di maestro e di scrittore di storia, come, specialmente dal'70, Pasquale Villari. Gli veniva, questa notorietà e fama, innanzi tutto, dalla vastità del successo di alcune sue opere relative a personaggi o periodi fra i più noti della storia nazionale: dopo il Savonarola, i tre volumi su Niccolò Machiavelli e i suoi tempi fra il 1877 e il 1882; i due volumi di ricerche, iniziate fin dal 1866, sui Primi due secoli della storia di Firenze, del 1893-94; Le invasioni barbariche in Italia, nel 1901; L'Italia da Carlo Magno ad Arrigo VII, nel 1910; i volumi di Saggi e Scritti dispersi su giornali e riviste, sui più varî argomenti, usciti a varie riprese tra il 1884 e il 1914 (opere tutte assai tradotte all'estero). Ma gli veniva anche, pur senza essere vero e proprio uomo politico e senza mai aver avuto responsabilità di capo di governo o di capo di partito, da alcune iniziative, da lui individualmente assunte, in momenti gravi per la vita politica italiana e quando governo e partiti tacevano, per ridestare nella coscienza della nazione il senso dei pericoli incombenti sullo stato unitario e della necessità e urgenza di porvi rimedio: così con l'articolo, pubblicato nel 1866, sotto il titolo, Di chi la colpa? e con le corrispondenze inviate da Napoli, sulla fine del '61, alla Perseveranza di Milano, e con le Lettere del marzo '75 sulla camorra, la maffia, il brigantaggio, poi raccolte in volume sotto il titolo di Lettere meridionali, e con le appassionate campagne di stampa da lui promosse intorno ai problemi dello sventramento di Napoli e dei grandi centri, sull'emigrazione, sulla burocrazia, sulla scuola, sui varî aspetti della "questione sociale", e con l'articolo, severamente ammonitore, pubblicato nella Nuova Antologia del 1893, sotto il titolo Dove andiamo?. Insieme con questo aspetto della sua opera è da considerare l'attività da lui per sette anni dedicata alla tutela e al potenziamento dei diritti degl'Italiani, presiedendo, quando ormai aveva già oltrepassato i settant'anni, alla Dante Alighieri. Insomma, alte preoccupazioni di carattere morale.

Del resto, preoccupazioni di tal genere si ritrovano anche nel Villari storico. Non è mero caso, se sopra di lui esercitarono un così forte fascino due figure, entrambe, benché per ragioni diverse, problematiche: Machiavelli e Savonarola. Nel dramma dell'uno e dell'altro, egli scorse, più che il dramma di due individui, le espressioni tipiche di un più vasto dramma: quello dello svolgersi e formarsi dell'unità spirituale degli Italiani, attraverso un processo che al V. pareva non ancora compiuto. Naturalmente le preoccupazioni e riserve moralistiche e politiche non giovarono alle opere che egli dedicò ai due personaggi. Il libro sul Savonarola, in verità, per il fervore di simpatia che lo scrittore ha per il suo eroe, si legge sempre con vivo piacere, quantunque esso non rappresenti l'ultima parola che si può dire sul frate fiorentino. Ma gravi difetti, infirmano i tre volumi sul Machiavelli, con i quali il problema non ha fatto alcun passo decisivo verso la soluzione. Di fronte al Machiavelli, l'autore oscillò sempre tra l'ammirazione e il sospetto. Sentiva di doverlo ammirare, ma non riusciva mai del tutto a capirlo. Per capirlo, avrebbe dovuto comprendere che il Machiavelli, lungi dall'aver separato l'attività politica dall'attività morale, è lo scrittore politico che più di ogni altro intuì la inscindibilità della vera politica dalla vera moralità. Ma il motivo, per cui il V. non giunse a chiarire a sé stesso il concetto machiavellesco della libertà del volere e della responsabilità etica della condotta umana, fu lo stesso che lo indusse un giorno ad apporre egli medesimo, in un suo scritto del 1866, l'etichetta del positivismo alla tendenza realistica del suo idealismo, la sua istintiva deficienza di attitudine all'apprendimento e al possesso dei concetti speculativi.

A un vero equivoco diede luogo, infatti, l'articolo del V. sulla filosofia positiva e il metodo storico, a torto interpretato come una sua sconfessione di un precedente indirizzo idealistico del suo pensiero e una sua conversione all'indirizzo positivistico di Comte e di Stuart Mill. Egli non aveva voluto fare adesione a una scuola filosofica nuova: ma solo constatare l'indirizzo decisamente storico assunto da tutte le scienze morali. Non un'intuizione filosofica del mondo e della vita, egli si era illuso di chiamare filosofia positiva; ma solo quel metodo, il quale consiste nel cercare di comprendere la realtà concreta dello spirito nello sviluppo della sua storia. Positivismo, quale poteva essere concepito da chi era, da giovane, abituato a sentire lo spirito come storia, ossia a non poter tendere ad altro ideale, che a quello già implicito nella realtà, che si deve mutare, a patto di muovere da essa. Perciò il rimprovero che il Villari moveva alle classi dirigenti italiane, era sempre di pretendere di governare gl'Italiani, ignorandone le condizioni reali, e fingendo a sé stessi di poter governare in nome di idee astratte, come quelle di libertà e di uguaglianza. Il V. riteneva per gl'Italiani la conquista della libertà attraverso le garanzie statutarie e parlamentari del tutto illusoria, sino a che le condizioni reali entro le quali continuava nell'Italia unitaria a svolgersi la vita morale e materiale della maggior parte di essi, fssero sempre, quando non fossero peggiorate, quali erano anteriormente all'unità: sino a che, cioè, gl'Italiani, i singoli Italiani concretamente presi, non il popolo italiano astrattamente concepito, non diventassero meno poveri, meno rozzi, meno incolti, meno discordi di quanto non fossero nell'Italia divisa e serva dello straniero. È questa l'idea fissa delle Lettere meridionali, insieme col concetto che non di libertà avesse bisogno il popolo italiano, ma di giustizia sociale; idea e concetto che il V. era solo a sostenere, a difendere e a propagandare.

Bibl.: E. Pistelli, Profilo di P. V., Introduzione a G. Bonacci, L'Italia e la civiltà, pagine scelte di P. V., Milano 1916; F. Baldasseroni, P. V. Profilo biografico (con bibliogr. completa sino al 1907), Firenze 1907; G. Melli, Commemorazione di P. V., letta il 16 giugno 1918 nel R. Istituto di Studi superiori di Firenze, Firenze 1918; F. Felicioni, Prefaz. al vol. Scritti e discorsi per la "Dante" di P. V., Roma 1932; G. Gentile, in La Critica, 1908, p. 349 (sul V. filosofo; B. Croce, Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, Bari 1921, pp. 160 seg., 176 seg.

Vedi anche
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