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Stato, quasi stato, non-stato

Atlante Geopolitico 2014 (2014)
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di Gian Paolo Calchi Novati

Una crisi irreparabile della statualità può portare o all’incapacità delle istituzioni pubbliche di esercitare la sovranità e fornire i servizi essenziali o allo smembramento. Nell’esperienza dell’Africa post-coloniale sono più i fallimenti delle secessioni. A mantenere lo status quo territoriale ha sicuramente concorso la volontà di USA e URSS durante la Guerra fredda di contrastare il mutamento delle frontiere consolidate. È stata poi la stessa Africa indipendente a elevare una barriera anti-revisionista: l’autodeterminazione si era adattata alla geopolitica coloniale e fra i principi della Carta dell’Organizzazione per l’unità africana (OAU), istituita a Addis Abeba nel 1963, figurava appunto la non modificabilità dei confini ereditati dal colonialismo passando per la decolonizzazione. L’era del bipolarismo, con le sue tensioni e le sue regole, si è chiusa all’inizio degli anni Novanta: il sistema post-bipolare si è mostrato molto più disponibile ad accettare nuovi stati. Nei primi anni Duemila l’OAU è stata sostituita dall’Unione Africana (AU), il cui statuto e la cui prassi sono a loro volta meno contrari a un rimodellamento dei regimi e, a certe condizioni, degli stati.

Il primo vulnus alla conservazione della mappa africana ha riguardato l’Etiopia con il distacco dell’Eritrea, di fatto nel 1991 e di diritto due anni dopo, previo un referendum dall’esito scontatissimo. Stando alla logica che ha sovrinteso alla formazione degli stati africani indipendenti, il caso dell’Eritrea era anomalo. Aveva costituito una colonia italiana a sé, distinta dall’Etiopia, che aveva preservato la sua indipendenza fino alla guerra di conquista del 1935-36, in seguito alla quale l’Eritrea era stata inserita assieme all’Etiopia e alla Somalia nell’Africa Orientale Italiana (AOI). La successione al dominio italiano – dopo che era stata ripristinata già nel 1941 la piena sovranità dell’Etiopia – in Eritrea fu un compromesso fra i due estremi dell’unionismo (all’Etiopia) e dell’indipendenza: uno status federale che diede una cattiva prova di sé e che finì nel 1962 con l’annessione dell’ex colonia italiana all’impero di Hailè Selassiè. Trent’anni dopo, senza che l’Italia l’avesse cercato, si tornò in un certo senso ai risultati del colonialismo e l’Eritrea divenne indipendente senza più obiezioni da parte di nessuno. Si racconta che Salim Ahmed Salim, allora segretario generale dell’OAU, assistendo ai festeggiamenti dell’indipendenza di Asmara si sia lasciato sfuggire una frase che suonava più o meno così: ‘Oggi accettiamo l’Eritrea. Prima o poi accetteremo il Sud Sudan. Poi tireremo giù la saracinesca’. La prima parte della profezia di Salim si è avverata nel 2011 con l’indipendenza delle province meridionali del Sudan per effetto del Comprehensive Peace Agreement (CPA), concluso nel 2005 fra il governo di Khartoum e il Sudanese People’s Liberation Movement/Army, che prevedeva, appunto, l’exit option per il Sud. Malgrado le lacune del CPA, che non fissò nemmeno il confine esatto fra le due entità statali, anche il Sud Sudan non venne ostacolato al momento della sua costituzione. C’era un accordo firmato fra le due parti, addirittura con la malleveria degli Stati Uniti. L’AU si affrettò ad ammettere il Sud Sudan, com’era avvenuto per l’OAU con l’Eritrea nel 1993.

Nel clima dell’ordine post-bipolare, la sovranità è continuamente messa in discussione o manipolata, soprattutto quella degli stati situati in quell’immensa ‘terra di nessuno’ fra est e ovest e nord e sud che è stata teatro di tante guerre combattute o pendenti. Lo stato stesso è dequalificato, anche se proprio la ‘territorializzazione’ delle proteste e delle rivendicazioni finisce per rivalutarne implicitamente la funzione. La politica dei due pesi, a seconda che si tratti di ‘centro’ (per cui prevale il riflesso condizionato in senso conservativo) o di ‘periferia’ (luce verde per i separatismi), si rivela troppo contraddittoria in sé per garantire giustizia e stabilità.

In Africa i candidati a nuove configurazioni non mancano. Il Somaliland, che coincide con l’ex Somaliland britannico (un’altra vittoria postuma del colonialismo?), si comporta dal 1991 come se fosse indipendente, sebbene nessun governo finora l’abbia riconosciuto. Nello spazio somalo, preme per l’autonomia o l’indipendenza anche il Puntland, mentre le istituzioni che siedono formalmente a Mogadiscio sono a metà strada fra una nebulosa (la fattispecie del fallimento) e una somma di spezzoni controllati da truppe straniere (secessionismo o spartizione). La vicenda della Somalia è la prova che l’AU nutre ancora qualche remora prima di dare un ordine equivalente a un ‘liberi tutti’. Dopo il mutamento di regime a Tripoli, la separatezza della Cirenaica è più di una mera ipotesi. L’unità del Congo-Kinshasa è sempre minacciata dai conflitti tribal-regionali sobillati da Ruanda e Uganda attraverso le popolazioni di ceppo tutsi. Chi più e chi meno, tutti gli stati della fascia sahelo-sudanese sono in pericolo. Nonostante l’Operazione Serval, la città di Kidal nel nord del Mali, culla dell’irredentismo tuareg, tiene viva l’idea dell’Azawad. E quasi come conclusione, provvisoria, nel 2013 la Repubblica Centrafricana ha ammesso quasi ufficialmente la sua fine come stato, aprendosi all’intervento della Francia.

I ‘poteri forti’ al vertice del sistema mondiale non si pongono seriamente il problema di quale sia il tasso di ‘esistibilità’ e ‘sovranibilità’ dei nuovi nati. I rimedi proposti sono protettorati a termine più o meno determinato, o la moltiplicazione di mini-stati o quasi stati senza radici e con legittimità incerta per dare un rifugio o una speranza ai perdenti di oggi (i possibili vincenti di domani). Il Somaliland non è neppure un unicum. Cirenaica e Azawad sono in attesa. Nei Balcani si rafforza il Kosovo, stato per pochi. In Medio Oriente il Kurdistan iracheno si autogoverna e gestisce persino il petrolio, prescindendo da Baghdad. Il paradosso è che questa formula ‘grigia’ potrebbe aiutare a risolvere la questione della Cisgiordania e quella di Gaza dando vita a una parvenza di stato palestinese autonomo dentro la sfera strategica di Israele, così come il Kurdistan iracheno è sotto l’occhio vigile della Turchia e il Somaliland sotto quello altrettanto interessato dell’Etiopia. Se riuscirà a riprendere con un minimo di sicurezza l’attività estrattiva, la Cirenaica, con la compiacenza delle compagnie petrolifere, potrebbe essere la protettrice di se stessa.

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