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STEFANO I papa, santo

di Mario NICCOLI - Enciclopedia Italiana (1936)
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STEFANO I papa, santo

Mario NICCOLI

Fu eletto vescovo di Roma alla morte di Lucio I (5 marzo 254) e consacrato il 12 maggio successivo. Il suo breve pontificato (morì il 2 agosto 257; la tradizione che lo vuole martire non è più antica del sec. VI) ha grande importanza, a parte alcuni provvedimenti di ordine interno riferiti dal Liber Pontificalis (ordinazione di sei preti, cinque diaconi e tre vescovi; divieto ai sacerdoti di servirsi delle vesti liturgiche fuori delle chiese), per la controversia con la chiesa africana a proposito della validità del battesimo amministrato dagli eretici. Un primo motivo di dissenso fra S. Cipriano e Stefano nacque a proposito dei due prelati spagnoli Basilide e Marziale, rispettivamente vescovi di Merida e di León e Astorga, destituiti in qualità di lapsi (v.) durante la persecuzione. Mentre St. si lasciò convincere della loro innocenza e li reintegrò, il concilio cartaginese (autunno 254), investito della questione, emanò, sotto la presidenza di S. Cipriano, una sentenza diametralmente opposta a quella di St. e ne diede partecipazione alle chiese interessate (v. lettera LXVII di S. Cipriano, ed. Bayard, II, pp. 227-34). A intorbidare le acque seguì la faccenda di Marciano vescovo di Arles, il quale, seguace delle idee di Novaziano (v.) sulla riconciliazione dei lapsi, era stato denunciato a St. da Faustino vescovo di Lione e da altri vescovi della Gallia; ma St., che aveva una certa moderazione verso i novaziani, non credette d'intervenire e allora Cipriano, a preghiera di Faustino, gli scrisse una lettera (LXVIII, ibid., pp. 234-38), redatta in termini piuttosto imperativi, sollecitandolo a scomunicare il vescovo di Arles. Ma St. non sembrò darsene per inteso.

Con questi precedenti scoppiò la cosiddetta controversia battesimale. La questione era di sapere se gli eretici che abbandonavano la setta nella quale avevano ricevuto l'iniziazione cristiana e passavano nelle file della Chiesa cattolica, dovevano ricevere un nuovo battesimo o se si doveva ritenere valido il battesimo ad essi impartito dagli eretici. L'uso seguito, quasi senza eccezione, dalle chiese africane e da gran parte di quelle asiatiche, era di rinnovare il battesimo. A Roma, invece, come del resto in Egitto, il battesimo non era rinnovato, ma ci si limitava a ripetere l'imposizione delle mani. Poiché anche alcuni vescovi africani s'erano rivolti a Cipriano esprimendo dei dubbî sulla legittimità di questo secondo battesimo, Cipriano, dopo alcune lettere dirette a questi (epp. LXIX-LXXI, ibid., pp. 239-59), nell'ultima delle quali già appare una decisa nota polemica verso St., che peraltro non è nominato, s'indirizzò direttamente al papa (ep. LXXII, ibid., pp. 259-62) nel tentativo di fare riconoscere l'uso africano, come il solo ammissibile, anche alla chiesa di Roma (deliberaz. del sinodo cartaginese dell'autunno 255 o primavera 256). Seguì la famosa lettera a Giubaniano (ep. LXXIII, ibid., pp. 262-79) nella quale Cipriano fa l'esposizione più sistematica del suo punto di vista. Ma St., per tutta risposta, riaffermò solennemente l'uso romano e ingiunse, pena la scomunica, che anche la chiesa d'Africa si dovesse uniformare ad esso. Cipriano non si mostrò sorpreso; radunatosi il concilio generale delle chiese africane (1° settembre 256), gli ottantasette vescovi presenti (in realtà 2 votarono per procura), all'unanimità, riconfermarono la nullità del battesimo degli eretici. A St., alla sua lettera, non fu fatto alcun accenno diretto; ma Cipriano, che, scrivendo a Pompeo (ep. LXXIV, ibid., pp. 279-88), aveva esplicitamente deplorato l'atteggiamento di St., si limitò ad affermare che il concilio non intendeva con ciò giudicare chicchessia né di separarsi dalla comunione di coloro che non la pensassero in quel modo: "alcuno di noi non si eresse a vescovo dei vescovi né fece ricorso a minacce tiranniche per forzare i suoi colleghi ad obbedirgli, giacché noi sappiamo che ogni vescovo ha la libera disposizione dei suoi atti e che nessuno può giudicarlo".

Il conflitto era entrato così in una fase acutissima, come si può anche desumere dalla violenza con la quale il vescovo Firmiliano di Cesarea si esprime scrivendo a Cipriano (ep. LXXV, ibid., pp. 289-308) nei riguardi di St. Alcuni studiosi hanno anche pensato, deducendolo da questa lettera, che St., ricevuti gli atti del concilio africano, scomunicasse gli Africani. Intervenne, come mediatore, il vescovo Dionigi d'Alessandria; sopravvenne la morte di St., la persecuzione. Il successore di St., Sisto II, "buono e pacifico", si mostrò sensibile alle pressioni di Dionigi e la Chiesa romana, pure mantenendo fede al suo uso, cessò d'imporlo. In realtà il conflitto fra St. e Cipriano va oltre la stessa questione concreta oggetto della controversia: per rendersi conto di ciò occorre tenere presente che Cipriano, pur facendo il debito posto alla "cattedra di Pietro", e pur difendendo contro gli eretici l'unità della Chiesa, non ebbe un'idea adeguata dell'unità di governo in essa, insistendo sulla piena autorità di ciascun vescovo sulla sua chiesa e raffigurando il "corpus sacerdotum" come "concordiae mutuae glutino atque unitatis vinculo copulatum". Al contrario St. sembra avere avuto un concetto tutto monarchico della Chiesa e della gerarchia episcopale: non è senza significato, a illuminare tutto il riposto senso della controversia, che egli sia stato il primo vescovo di Roma che si sia richiamato esplicitamente al famoso passo di Matteo (XVI, 18: lo stesso che Cipriano impiegava per dimostrare l'origine divina dei diritti dell'episcopato) per riaffermare solennemente la primazia della sede di Roma. Se Cipriano abbia visto nella controversia battesimale una questione puramente disciplinare senza portata dogmatica o se fosse invece convinto del contrario, è una questione dibattuta dal sec. XVI in poi; ma essa ha un valore esclusivamente teologico e a preoccupazioni teologiche è subordinata la conclusione patrocinata da protestanti e gallicani, favorevole, come è ovvio, alla seconda alternativa.

Bibl.: È copiosissima: oltre quella citata da A. Clerval, in Dictionnaire de théologie catholique, V, coll. 970-73, e sotto cipriano, v.: J. Turmel, Histoire du dogme de la papauté, Parigi 1908, pp. 103-77; E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tubinga 1930, p. 70 segg. Vedi, inoltre: Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, I, Parigi 1886, p. 154; Ph. Jaffè, Regesta, I, Lipsia 1881, pp. 20-21.

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