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violento

di Andrea Ciotti - Enciclopedia Dantesca (1970)
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violento

Andrea Ciotti

Con valore aggettivale il termine si registra tre volte, sempre con riferimento alla morte dovuta a cause non naturali.

Tale è la morte di Geri del Bello, che fu infatti ucciso (If XXIX 31); i suicidi sono coloro che hanno in sé man vïolenta (XIII 40); in Cv IV XXIII 8 la morte violenta è accostata a quella per accidentale infertade affrettata e a quella che naturale è chiamata dal vulgo.

Per altre occorrenze del termine, cfr. oltre.

Violenza e violenti in Dante. - I peccatori di v. sono collocati nel settimo cerchio dell'Inferno. Nella pausa riflessiva e strutturale del c. XI Virgilio personaggio introduce e svolge il discorso didascalico che implica la descrizione ed enunciazione concettuale delle forme di peccato punite con la dannazione eterna. In particolare il concetto di v. è evidenziato nel lungo passo dei vv. 28-51 (dove, al v. 28, ricorre l'unico caso del sostantivo, violenti) il cui ampio contesto contiene, in una sintesi fortemente incisiva, la prospettiva di una situazione peccaminosa che offrirà nei canti successivi materia e forma di figurazione e di personificazione in toni e moduli poeticamente assai rilevanti. Le singole forme di v., e precisamente contro Dio, contro sé stesso e contro il prossimo, consentono di allargare e di approfondire il discorso fino all'accenno, sia pure emblematico o teorico, ma già carico di un giudizio di condanna morale senza dubbi e senza perplessità, a una sorta di ripartizione analitica che pone in evidenza, anche se con una certa apparente vaghezza d'indicazione, altre possibilità o alternative o connotazioni evidenti di peccato che alla v. comunque si riconducono, sia pure in un'accezione allargata del concetto, ma sempre in termini di sicura dottrina. Sta alla matrice di fondo l'idea della rovina morale e quindi anche dell'opera di distruzione che la v., in tutti i modi e in tutte le manifestazioni cui può dar vita, finisce ineluttabilmente col produrre nell'anima umana, nella misura in cui ne deforma e annienta le fattezze interiori e spirituali e ne corrompe inesorabilmente l'habitus senza possibilità di riscatto alcuno, per la perdita della grazia e quindi dell'amore di Dio.

Il primo dei tre gironi è quello che accoglie i v. contro il prossimo e le cose (cfr. OMICIDI; Predoni; Tiranni). Il rilievo iniziale è dato al fiume di sangue in cui essi sono immersi (If XII 48 la riviera del sangue in la qual bolle / qual che per vïolenza in altrui noccia) in una collocazione rigidamente controllata, oltre che nelle dimensioni fisico-spaziali, anche dalla presenza rigorosamente vigilatrice dei centauri (vv. 52-57 Io vidi un'ampia fossa in arco torta, / come quella che tutto 'l piano abbraccia, / secondo ch'avea detto la mia scorta; / e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia / corrien centauri, armati di saette, / come solien nel mondo andare a caccia). La situazione episodica che accompagna l'ulteriore sviluppo di questa fase del viaggio infernale passa attraverso riconoscimenti di personaggi con indicazioni anche in questo caso piuttosto sommarie e allusive, per non dire equivoche. Il centauro Nesso presenta ed enumera i tiranni, che nei loro nomi, classici e medievali (Alessandro e Dionigi, Ezzelino da Romano e Opizzo d'Este) costituiscono l'emblema blasonato in senso negativo di un'aristocrazia di sangue e di v., quale si presenta nella sintesi contaminante della cultura medievale. Questi peccatori, sommersi fino alle ciglia nel bollente fiume di sangue, mandano dolorosi lamenti (XII 102 i bolliti facieno alte strida). Un gruppo successivo sembra sporgersi dalla palude ardente (vv. 115-117 Poco più oltre il centauro s'affisse / sovr'una gente che 'nfino a la gola / parea che di quel bulicame uscisse) e tra queste anime, isolata in disparte, è Guido di Monforte. Una terza schiera sembra levarsi ancora più nettamente delle precedenti dall'orribile fiume di sangue (vv. 121-122 Poi vidi gente che di fuor del rio / tenean la testa e ancor tutto 'l casso). Così la giustizia divina punisce coloro che in terra si resero colpevoli di guerre sanguinose (Attila, Pirro, Sesto, Rinieri da Corneto).

Nel secondo girone sono i peccatori di v. contro sé stessi e le proprie cose (cfr. SCIALACQUATORI; suicidi). La presentazione del luogo della pena che costituisce, costruita con salda e sostenuta ampiezza retorica, l'attacco di If XIII (la selva dei suicidi nell'orrore della sua squallida durezza) introduce il richiamo affettuoso e ammonitore di Virgilio (XIII 16-21 E 'l buon maestro " Prima che più entre, / sappi che se' nel secondo girone ", / mi cominciò a dire, " e sarai mentre / che tu verrai ne l'orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai / cose che torrien fede al mio sermone "). L'orrore della pena è nella metamorfosi, per così dire, che immette le anime peccatrici a espiare in eterno, integrate nelle piante della selva. L'episodio di Pier della Vigna (cfr.) concentra su di sé tutta l'intensità drammatica e retorica insieme di un ritratto esemplare che si stagli mobile ed efficacissimo sul fondo della prospettiva ambientale. L'illustre personaggio spiega in che modo l'anima del suicida precipiti nella selva, si sviluppi in pianta silvestra, e ne dice la sorte dopo il giudizio universale (vv.94-108).

Il contrappunto della mobilità della scena è costituito dalla fuga straziata delle anime degli scialacquatori, inseguite e lacerate da cagne avide e rabbiose. La successione degli elementi della visione, se da un lato comporta l'immediata integrazione dei vari elementi di ordine concettuale e dottrinario, analizzati figurativamente e incarnati secondo il modulo dei singoli personaggi, dall'altro implica anche una presa di conoscenza da parte del poeta, e con lui del lettore, della carrellata scenografica che caratterizza questo cerchio infernale. Vale, quindi, il legame tra le parti, il passaggio da un tempo a un altro, anche per sottolineare le diverse gradazioni, le sfumature tonali e sostanziali che contraddistinguono i singoli episodi.

Nel terzo girone sono i v. contro Dio nella sua persona (cfr. BESTEMMIATORI), i v. contro Dio e natura (cfr. SODOMITI), i v. contro Dio e l'arte (cfr. USURAI); in primo luogo tra i bestemmiatori spicca il personaggio di Capaneo (cfr.). L'orrore della pena è nuovamente sottolineato con il passaggio dalla selva al sabbione infuocato, battuto da una terribile pioggia di fuoco. Il richiamo del mito ribadisce ancora una volta l'impressione-descrizione e la riporta a un noto modulo retorico (XIV 31-42).

I v. contro natura o sodomiti, tra i quali campeggia il personaggio di Brunetto Latini (cfr.), sono condannati a camminare senza tregua nel sabbione ardente e sottoposti all'inesorabile pioggia di fuoco che ne deforma orribilmente i connotati fisici. Se si arrestassero, resterebbero cento anni senza potersi far riparo contro le fiammelle infuocate (XV 37-42). Com'è noto, il Pézard ritiene che Brunetto e i dannati di questo canto non siano tanto sodomiti, ma piuttosto bestemmiatori nell'esercizio dell'arte a ciascuno propria. Colpa del Latini sarebbe l'aver negletto la propria lingua a favore di quella francese nell'esercizio del suo magistero retorico. Si tratta, però, di una tesi cui sono stati piuttosto avari i consensi. Sempre nel medesimo girone D. incontra i tre spiriti fiorentini di chiara e illustre fama (Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e lacopo Rusticucci), i quali s'intrattengono con lui, facendogli cerchio intorno e ruotando continuamente, in rispetto della legge della pena, mentre Brunetto aveva accompagnato il cammino dell'ideale discepolo fino a quando gli era stato possibile.

Le anime meste degli usurai, i quali hanno peccato contro natura e arte, in quanto l'arte è figlia della natura, la natura è figlia di Dio, e quindi l'arte è a Dio quasi nipote, stanno sedute, anch'esse sottoposte alla pioggia di fuoco dalla quale cercano di ripararsi, come i cani quando, d'estate, cercano di liberarsi dagli insetti. Ciascun peccatore ha pendente dal collo una borsa colorata e figurata in stemmi araldici. Nel colloquio tra il pellegrino vivo e le anime peccatrici si evidenzia un'individuazione etica di due città rattristate da questo peccato, e cioè Firenze e Padova. Circa la collocazione del peccato di usura tra quelli di v. va tenuto presente il chiarimento etico e dottrinale in precedenza offerto da Virgilio (If XI 94-111), secondo il quale, alla luce della scienza aristotelica confortata dalla sentenza scritturale, l'usuraio è da intendersi, sostanzialmente, come un peccatore contro natura, in quanto il suo comportamento ne contraddice le leggi e i principi. L'insistenza di D. su questo argomento ribadisce con estrema nettezza la condanna dell'usura, in ciò conformandosi a una valutazione di giudizio propria della cultura e della società medievale, che suona condanna rigorosa per qualunque forma di acquisto di ricchezza o di benessere che non comporti l'impiego dell'onesto e faticoso lavoro umano.

Per il concetto di v. D. ha tenuto presenti tanto la tradizione classica, quanto quella teologica e scolastica, fondendo l'una e l'altra sotto la prospettiva di una figurazione unitaria e sincreticamente attuale e, si potrebbe dire, esistenziale. La più stretta dipendenza, secondo il Pagliaro, è da riportare a Cicerone Off. I XIII 41, specialmente per la distinzione tra v. e frode (" Cum autem duobus modis, idest aut vi aut fraude fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae vis leonis videtur; utrumque alienissimum ab homine est, sed fraus odio digna maiore ") non senza, ovviamente, ammettere la compresenza o, quanto meno, la rielaborazione della dottrina aristotelica mediante la lezione e la dottrina scolastica, e più specificamente tomistica. Il peccato di v. viene strutturato nella presentazione in ordine di gravità decrescente (A Dio, a sé, al prossimo si pòne / far forza, If XI 31-32), mentre nella raffigurazione della pena si ha una disposizione inversa, e cioè per gravità crescente secondo il concetto dell'amore naturale che, come hanno ben visto, tra gli altri, il Nardi e il Pagliaro, nei diversi gradi, verso Dio, verso sé stesso e verso il prossimo viene travolto e distrutto nell'atto di violenza. Nella raffigurazione in crescendo l'acme viene raggiunta nella forma di v. contro Dio, considerata come atto d'infamia e di degradazione morale nel quale il dramma della creatura sembra toccare il fondo della bestialità accecata dalle tenebre del male e privata della consolazione della grazia, in quella che il Montanari ha chiamato " la corruzione dell'organismo animale dell'uomo ".

In Pd IV D. tornerà, infine, a meditare sulla v. come condizione esterna e limitante i meriti di una volontà volta al bene. Alla domanda del poeta sul perché la violenza altrui (v. 20) - ove impedisca alla volontà di mantenere un voto promesso - è in grado di far scemare i meriti di chi quel voto pronunciò, Beatrice risponde, sulla base dell'insondabile mistero della divina giustizia (vv. 67-69), con un tono di alta determinazione magistrale. Se violenza si verifica allorché chi la patisce in nulla asseconda chi quella v. esercita (Se vïolenza è quando quel che pate / nïente conferisce a quel che sforza, v. 73), ebbene, ciò non basta a giustificare le anime (Costanza e Piccarda nell'esemplificazione del canto) che passivamente cedettero a quella costrizione. Di fronte alla triplice possibilità di assecondare, non assecondare e resistere alla v., quelle anime, appunto, mancarono di esercitare e attuare pienamente la natura della volontà. La volontà, infatti, ove attui sé stessa secondo natura, non potrà non adempiere al fine che è ad essa connaturato (il perseguimento del bene), superando ogni forza ‛ contro natura ' che quel fine intenda contrastare.

Di qui l'esempio del fuoco (ché volontà, se non vuol, non s'ammorza, / ma fa come natura face in foco, / se mille volte vïolenza il torza, v. 78), che ‛ per natura ' - o per moto naturale - è portato ad ascendere in alto verso la sfera del fuoco, e lì quetarsi come al suo ‛ luogo naturale ', anche se mille volte un moto violento (‛ contro natura ') tenderà a torcerlo in basso. L'esempio della volontà che non si spegne (ammorza) e del fuoco che resiste a ogni torsione trova il proprio fondamento nell'idea di una natura che si attua, in ogni sua parte, secondo l'armonico convergere dei moti e dei fini a ciascuno assegnati, e che non può sopportare o ammettere - se non temporaneamente e per infine vincerlo - qualsiasi atto di v. che sarà, per ciò stesso, un atto contro natura.

In tal senso D., in Cv IV XXVIII 4, aveva inteso il distacco dell'anima dal corpo, e la sua ascesa al cielo, come quello di un pomo maturo che leggiermente e sanza violenza si dispicca dal suo ramo. L'ascesa e il reditus dell'anima al suo fattore si configura appunto (ove non sia turbato da una volontà al male) come atto conforme ai fini naturali; e se D., in Pd XX 94, parlerà di una v. a cui il cielo cede (Regnum coelorum vïolenza pate) non si tratterà più di una v. difforme a natura ma, viceversa, del retto appetito della volontà volta al bene, ‛ violentemente ' animato da caldo amore e da viva speranza (v. 95).

Bibl. - G. Busnelli, L'Etica Nicomachea e l'ordinamento morale dell'Inferno di D. con un'appendice: La concezione dantesca del Gran Veglio di Creta, Bologna 1907, 123-130; L. Filomusi Guelfi, Studi su D., Città di Castello 1908; L. Pietrobono, Il poema sacro. Saggio d'una interpretazione generale della D.C. - Inferno, II, Bologna 1915, 105-160; V. Vaturi, Il c. XI dell'Inferno, Firenze 1925; M. Scherillo, Il c. XIV dell'Inferno, ibid. 1932; N. Zingarelli, Il c. XV dell'Inferno, ibid. 1933; U. Bosco, Il tiranno Alessandro, in " Annali Scuola Norm. Sup. Pisa " s. 2, XI (1942) 132-137 (rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 369-378); G. Ferretti, La " matta bestialità ", in Saggi danteschi, Firenze 1950, 77-112; A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950; S.A. Chimenz, nota aggiuntiva a B. Nardi, Il c. XI dell'Inferno, Roma 1951, 25-30; S. Aglianò, Lettura del c. XIII dell'Inferno, in " Studi d. " XXXIII (1955) 143-186; L. Pietrobono, Dal centro al cerchio. La struttura morale della D.C., Torino 1956, 93-143; R. Montano, Storia della poesia di D. - Inferno, in " Delta " 15-17 (1958) 53-54; G. Fallani, Poesia e teologia nella D.C., I, Milano 1959, 67-72; S. Vazzana, Il contrappasso nella D.C. (Studi sull'unità del poema), Roma 1959, 67-87; B. Nardi, Il c. XI dell'Inferno, in Lett. dant. 237-254; U. Bosco, Il c. XII dell'Inferno, ibid. 209-219 (poi in D. vicino, cit., 237-254); L. Spitzer, Il c. XIII dell'Inferno, ibid. 221-248; C. Varese, Il c. XIV dell'Inferno, ibid. 249-266; E.G. Parodi, Il c. XIV dell'Inferno, ibid. 267-290; L. Caretti, Il c. XVI dell'Inferno, ibid. 291-312; G. Getto, Il c. XVII dell'Inferno, ibid. 313-329; E. Auerbach, Struttura della " Commedia ", in Studi su D., Milano 1963, 91-122; G. Grassi, Il c. XI dell'Inferno, in Letture dell'Inferno, a e. di V. Vettori, ibid. 1963, 93-114; M. Camillucci, Il canto di Pier delle Vigne, ibid. 115-139; V. Vettori, Il c. di Capaneo, ibid. 140-154; A. Pagliaro, Le tre disposizion, in " L'Alighieri " V 2 (1964) 21-35 (poi in Ulisse 225-252); M. Casella, Introduzione alle opere di D., Milano 1965, 94-95; E. Bonora, Il c. XIII dell'Inferno, in " Cultura e Scuola " IV (1965) 446-454; E. Bigi, Un caso concreto del rapporto di struttura e poesia (Il c. XIV dell'Inferno), ibid. 455-470; F. Montanari, Brunetto Latini, ibid. 471-475; L. Caretti, Storia e poesia in D., ibid. 476-488; O. Capitani, Il " De peccato usurae " di Remigio de' Girolami, in Per la storia della cultura in Italia nel Duecento e primo Trecento, in " Studi Mediev. " s. 2, VI (1965) 537-662; A. Vallone, Il peccato e la pena, in Studi su D. medievale, Firenze 1965; ID., Il c. XVI dell'Inferno, ibid. 179-205; U. Bosco, Il canto di Brunetto, in Lect. Scaligera I 483-507 (rist. in D. vicino, cit., 92-121); ID., Il canto dei suicidi, in D. vicino, cit., 255-273; F. Montanari, Il c. XI dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 367-390; F. Figurelli, Il c. XII dell'Inferno, ibid. 391-424; C. Angelini, Il c. XIII dell'Inferno, ibid. 425-450; M. Apollonio, Il c. XIV dell'Inferno, ibid. 451-480; S. Pasquazi, Il c. XVI dell'Inferno, ibid. 513-562; P. Soldati, Il c. XVII dell'Inferno, ibid. 563-582; G.G. Meersseman, Il c. XI dell'Inferno, in Nuove Lett. II 1-16; G. Fallani, Il c. XII dell'Inferno, ibid. 17-32; I. Baldelli, Il c. XIII dell'Inferno, ibid. 33-46; U. Bosco, Il c. XIV dell'Inferno, ibid. 47-74; G. Petronio, Il c. XV dell'Inferno, ibid. 75-86; M. Marti, Il c. XVI dell'Inferno, ibid. 86-116; F. Lanza, Il c. XVII dell'Inferno, ibid. 117-136; A. Vallone, Dante, Milano 1971; G. Güntert, Pier delle Vigne e l'unità del canto (Inferno XIII), in " Lettere Ital. " XXIII (1971) 548-555.

Vocabolario
violènto
violento violènto (ant. o raro violènte) agg. [dal lat. violentus, affine a vis «violenza» e a violare «violare»]. – 1. a. Che usa con facilità e brutalità la propria forza fisica o altri mezzi di coercizione per imporsi ad altri, per sfogare...
violentare
violentare v. tr. [der. di violento] (io violènto, ecc.). – Sottoporre a violenza, indurre una persona, con una coercizione di natura fisica o morale, o con la suggestione, ad atti e comportamenti contrarî o comunque non consoni alla sua...
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