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ADULTERIO

di Franco Mencarelli - Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)
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ADULTERIO

Franco Mencarelli

(I, p. 561; App. I, p. 27; IV, I, p. 34)

A seguito delle sentenze n. 126 del 1968 − che dichiarava l'illegittimità dell'art. 559, primo e secondo comma codice penale, sanzionante penalmente l'a. della moglie e del correo − e n. 147 del 1969 − relativa all'illegittimità dei delitti di relazione adulterina (art. 559, terzo comma c.p.) e di concubinato (art. 560 c.p.), che era poi la sola forma di a. dell'uomo perseguita dal codice penale del 1930 − l'a. non costituisce più illecito penale.

Ciò peraltro non significa che esso non abbia più alcuna rilevanza nel nostro ordinamento, che invece vi ricollega tuttora una serie di conseguenze da cui emerge il disvalore attribuito all'adulterio. Al quale, ora con riferimento a quello della sola moglie, ora comprendendo entrambi i coniugi, fanno ancora riferimento l'art. 235 codice civile, concernente l'azione di disconoscimento di paternità in caso di a., e l'art. 143, secondo comma c.c., in relazione all'art. 151 c.c., laddove, individuando tra gli obblighi del matrimonio quello della reciproca fedeltà, si pone implicitamente l'a. tra i fatti "tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza", i quali costituiscono presupposto della separazione dei coniugi.

Va peraltro rilevato come nella nuova prospettiva determinata dalle sentenze richiamate si delinei una nozione di a. che non sempre coincide con quella consegnata dalla tradizione penalistica, che al riguardo fa riferimento al rapporto sessuale intrattenuto da una persona − uomo o donna − vincolata da matrimonio con persona dell'altro sesso, diversa dal coniuge. Infatti, se nell'accezione penalistica sopra indicata va certamente inteso il richiamo all'a. della donna, operato dall'art. 235 c.c., altrettanto non può dirsi per quanto attiene la violazione degli obblighi di fedeltà derivanti dal matrimonio.

In tal senso risultano assai chiare le pronunce della giurisprudenza. Esse muovono dal presupposto che ai fini della separazione non basta il riscontro di una condotta contraria ai doveri del matrimonio, occorrendo altresì − è stato ripetutamente precisato − che essa abbia reso o contribuito a rendere (giusta il disposto dell'art. 151, primo comma c.c.) intollerabile la prosecuzione della convivenza ovvero arrecato grave pregiudizio all'educazione della prole. Se ne è tratta quindi la conclusione, da una parte, che anche il mero comportamento di un coniuge, comunque idoneo a far apparire possibile ai terzi una sua infedeltà, può costituire causa tale da giustificare la separazione indipendentemente dall'effettiva ricorrenza materiale dell'a.: dal che una rilevanza negativa anche della mera apparenza dell'adulterio. Dall'altra parte, sempre la citata giurisprudenza ha sostenuto che per arrivare a considerare effettivamente rilevante un a. di cui risulti anche provata la concreta consumazione debba in ogni caso tenersi conto delle modalità degli atti, del tipo di ambiente e della sensibilità morale dei soggetti interessati.

Donde in ogni caso l'assunzione di una notevole elasticità della nozione di adulterio.

Quanto sopra assume particolare significato ove si consideri che se la disciplina della separazione attuale non dà più rilievo alla colpa come causa di separazione, un rilievo le attribuisce sicuramente sotto il profilo degli effetti di questa, quando ne sia possibile l'addebitabilità: così nel caso dell'art. 548 c.c., che fa riferimento all'addebito o meno della separazione per quanto concerne il riconoscimento al coniuge separato dei diritti successori nei confronti dell'altro coniuge.

Bibl.: G. Gianzi, L'adulterio alla luce di due importanti sentenze della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale, 1968, p. 2178; F. Verde, Adulterio, in Enciclopedia giuridica essenziale del diritto italiano vigente, i, Catanzaro 1978, p. 126; F. Santossuosso, Il matrimonio, in Commentario del Codice civile, Torino 19812, p. 970; G. Pisapia, Matrimonio (delitti contro il), in Enciclopedia del diritto, xxv, Milano 1985, p. 968.

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