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ARABO-ISRAELIANE, GUERRE

di Francesco Cataluccio - Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1978)
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ARABO-ISRAELIANE, GUERRE

Francesco Cataluccio

Mentre la prima guerra a.-israeliana, del 1948-49, consentì allo stato d'Israele di allargare la parte del territorio palestinese assegnatagli dall'assemblea dell'ONU con la risoluzione del 30 novembre 1947, incorporando la Galilea orientale, l'intero Negev e una striscia di territorio che lo portava a ricollegarsi con Gerusalemme (di cui occupò la metà), la seconda guerra - la "guerra di Suez" -, dell'ottobre 1956, lasciò immutato, per intervento dell'ONU, sollecitato dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica, lo status quo territoriale, nonostante le forze israeliane si fossero spinte con fulminea avanzata sino alle sponde del canale di Suez.

Ma la guerra dell'autunno 1956 ebbe notevoli conseguenze politiche. Anzitutto d'ordine internazionale: la creazione da parte dell'Assemblea dell'ONU, il 7 novembre, di una "forza di emergenza" (UNEF), cioè una polizia internazionale, conosciuta come "i caschi blu", col compito in primo luogo di garantire il ripiegamento degli eserciti e successivamente di tutelare la sicurezza delle frontiere fino a quando non fosse stata raggiunta una soluzione politica del conflitto a.-i.; e la proclamazione, il 5 gennaio 1957, della "dottrina Eisenhower", con cui gli Stati Uniti, offrendo il proprio aiuto politico economico militare a tutti gli stati del Medio Oriente che volessero coordinare gli sforzi contro le minacce di aggressione e di sovversione, in certo modo si sostituivano ufficialmente a Londra e a Parigi nel ruolo di guida della politica occidentale nel Medio Oriente e quindi anche in tema di conflitto a.-israeliano. All'interno dei due campi in conflitto, Israele ne trasse una più sicura presa di coscienza della propria vitalità e della propria superiorità militare e organizzativa nei confronti dell'avversario arabo; e gli Arabi, con all'avanguardia Egitto e Siria, si resero conto che le possibilità di giungere a rovesciare il rapporto di forze con Israele erano condizionate a un serio rinnovamento delle loro strutture di governo, di economia, di società e di cultura e alla realizzazione di un'unità interaraba non retorica ma concretamente operosa.

Dal lato israeliano, gli effetti psicologico-politici degli avvenimenti del 1956 si rivelarono, non appena ripresero ai confini con la Siria e con la Giordania incursioni di pattuglie e attacchi di commandos palestinesi, con l'affermazione via via più perentoria del proprio diritto d'inseguire e distruggere pattuglie e attaccanti nelle loro basi di partenza e del metodo della rappresaglia come dissuasione politica, e inoltre con l'irrigidimento nel rifiuto di risolvere il problema dei profughi palestinesi sulla base delle risoluzioni dell'ONU e con vari progetti di utilizzazione a fini irrigui delle acque del Giordano, i quali passavano sopra le proteste dei governi arabi interessati; dalla parte araba, tali effetti si manifestarono soprattutto col più insistente impegno di Nasser per raggruppare attorno a sé le forze progressiste del mondo arabo e per fare della liberazione della Palestina lo sbocco ultimo e coerente di una collaborazione panaraba.

La crescente prevalenza, in entrambi i campi, delle tendenze ostili a ogni compromesso, finì col preparare i presupposti di un nuovo scontro, anche perché le potenze e l'ONU attenuarono col tempo la pressione diretta a far superare la situazione di "non pace non guerra", e le prime, anzi, non valutarono adeguatamente il pericolo della corsa agli armamenti da loro promossa in Medio Oriente in nome di un equilibrio di forze che ritenevano il più efficace correttivo contro velleità di avventura dell'una e dell'altra parte. La minaccia di rottura assunse lineamenti precisi nel 1966, sia con la reciproca violenza di linguaggio, sia con una fitta serie di attacchi di pattuglie, di azioni di sabotaggio, di rappresaglie lungo le linee armistiziali fra Israele e Siria e fra Israele e Giordania. L'obiettivo della guerra di liberazione della Palestina era al centro del programma della sinistra del partito socialista Baath che il 23 febbraio 1966 conquistò il potere a Damasco; il complesso dell'accerchiamento, tornato a impadronirsi del gruppo dirigente israeliano di fronte allo spirito di crociata affermantesi da Damasco al Cairo, diede più larga udienza in Israele alla corrente incline a preferire uno scontro immediato, mentre cioè si aveva la certezza della propria superiorità di preparazione e di armamento, a uno più lontano nel tempo in probabili mutati rapporti di forza. Dalla battaglia aerea al di sopra del lago Tiberiade, che il 15 agosto 1966 contrappose Mig-21 siriani e Mirage israeliani, all'attacco istraeliano il 13 novembre contro la località giordana di Samu, dal nuovo più violento scontro aereo siro-israeliano tra il confine e Damasco il 7 aprile 1967 al concentramento nel maggio di forze israeliane al confine siriano e di forze egiziane nel Sinai, il processo di avvicinamento al limite di rottura si sviluppò sempre più. La situazione precipitò con la duplice decisione di Nasser, il 19 maggio, di chiedere il ritiro dei caschi blu dislocati lungo la frontiera del Sinai - il segretario generale dell'ONU, U Thant, consentì immediatamente in rispetto della lettera dell'accordo del 1957 per l'invio dell'UNEF, ma gli si rimproverò di non aver cercato di guadagnare tempo prezioso - e, il 22 maggio, di stabilire il blocco degli stretti di Tiran, chiudendo in tal modo il traffico di navi nel golfo di Aqaba e nel porto israeliano di Eilath. Le due decisioni non significavano necessariamente volontà del governo egiziano di aprire le ostilità, ma in questo senso vennero interpretate in Israele, dove le tesi dei temporeggiatori non trovarono più eco: il 1° giugno Moshè Dayan, esponente della corrente dell'"intervento oggi", assunse il dicastero della Difesa e il 5 giugno Israele scatenò l'offensiva con un potente attacco aereo che distrusse al suolo quasi per intero l'aviazione egiziana. Fu una tipica guerra-lampo: in sei giorni (da cui la dizione "guerra dei sei giorni") le forze israeliane occuparono Gaza e il Sinai a danno dell'Egitto, la Cisgiordania e la parte araba di Gerusalemme a danno della Giordania, gli altipiani del Golan a danno della Siria. L'invito a cessare il fuoco, lanciato dal consiglio di sicurezza dell'ONU il 7 giugno e, subito dopo, dall'Assemblea dell'ONU convocata in sessione straordinaria, venne accolto da Amman l'8 e dal Cairo il 9.

Un incontro tra il presidente statunitense Johnson e il primo ministro sovietico Kosygin a Glassboro il 23-25 giugno avviò l'azione diplomatica per la ricerca delle basi di pace fra Israele e Arabi. Mentre Mosca propose che per prima cosa Israele venisse invitato, come nel 1956, a ritirarsi dai territori che aveva occupato con la guerra, Washington si dichiarò per un collegamento del ritiro a una trattativa di pace a.-israeliana. Le due esigenze furono in certo modo codificate nella risoluzione 242, approvata il successivo 22 novembre dal Consiglio di sicurezza, la quale indicava come condizioni per la pace il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati e il riconoscimento e il rispetto della sovranità, dell'integrità territoriale e dell'indipendenza di tutti gli stati della regione e del loro diritto a vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti al riparo da minacce o azioni di forza. La risoluzione si pronunziò inoltre per "una giusta soluzione del problema dei rifugiati".

L'ambasciatore svedese Gunnar Jarring, che il Consiglio aveva incaricato di mediare fra le parti per l'attuazione della risoluzione 242, si trovò davanti a un compito di estrema difficoltà: le proporzioni della sua vittoria militare non spingevano Israele verso un orientamento flessibile e moderato, come aveva reso evidente l'immediata decisione di quel governo (28 giugno) di annettere la parte araba di Gerusalemme e come confermò sia col pretendere che il ritiro delle proprie truppe avvenisse solo a trattato di pace concluso, sia col rifiutare la dizione francese della risoluzione 242 ("retrait des territoires occupés") che l'obbligava al ritiro da tutti i territori occupati e ritenere valida la dizione inglese ("withdrawal from territories occupied") che si esprimeva per un ritiro parziale. Le proporzioni della sconfitta avevano accentuato negli Arabi i propositi di resistenza e di rivalsa, come risultò dal loro primo vertice tenuto a Khartum dal 26 al 29 agosto e concluso con un triplice rifiuto: "nessun riconoscimento d'Israele, nessun negoziato con Israele, nessun trattato di pace con Israele". Era appena terminata, con un bilancio del tutto negativo, la prima fase della missione Jarring, il 28 febbraio 1968, che Israele cominciò ad attaccare località giordane e libanesi dove la resistenza palestinese, riorganizzata e con nuovi dirigenti, era attivissima contro il suo territorio. Il 23 luglio 1969 il Cairo denunziò l'accordo di cessate-il-fuoco e proclamò una "guerra d'usura" contro Israele; questo rispose con continue incursioni aeree sulle postazioni egiziane del Canale. Nell'estate 1970 sembrò delinearsi una schiarita col piano di pace (25 giugno) del segretario di stato americano Rogers, articolato sul parziale ritiro delle forze dei belligeranti, sul ripristino del cessate-il-fuoco e sul ritiro successivo degl'Israeliani dai territori egiziano e giordano con parziali rettifiche di frontiera rispetto ai confini precedenti alla guerra del 1967, che riportò il cessate-il-fuoco e avviò un nuovo tentativo di mediazione di Jarring. L'arrivo alla presidenza dell'Egitto, in seguito alla morte di Nasser, il 28 settembre 1970, di Sadàt, dal temperamento meno rivoluzionario di quello del predecessore e orientato a cercare il dialogo con gli Stati Uniti, parve un ulteriore elemento favorevole per la ricerca di un compromesso. Ancora una volta però la flessibilità tattica delle parti non scalfì la sostanziale loro intransigenza e a metà del 1972 Jarring considerò inutile la continuazione della sua missione mediatrice. Incidenti di confine in continuo crescendo e attacchi anti-israeliani della guerriglia palestinese sempre più aspri preannunziarono la ripresa delle ostilità. Decisa infine in un vertice siro-egizio-giordano del 10 settembre 1973, la quarta guerra a.-israeliana ebbe inizio il 6 ottobre successivo. Il suo breve svolgimento vide un iniziale successo delle forze egiziane che, dopo aver attraversato il Canale, annientarono la linea difensiva israeliana Bar Lev penetrando per diversi chilometri nel Sinai, e quindi un'ardita controffensiva israeliana che, partendo da uno sbarco sulla riva occidentale del Canale, avviò una manovra per prendere a tergo lo schieramento egiziano.

Come le volte precedenti, l'intervento del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che con una risoluzione del 22 ottobre chiese la cessazione del fuoco e l'immediata ripresa delle trattative "per attuare la risoluzione 242 in tutte le sue disposizioni", riuscì il 26 ad arrestare i combattimenti. Lo stesso giorno i caschi blu si attestarono sulla linea di tregua, e subito dopo riprese l'azione delle potenze per la ricerca di una soluzione concordata del conflitto a.-israeliano. Al centro della mediazione si pose il segretario di stato americano Kissinger, che nel corso del 1974 e nei primi mesi del 1975 soggiornò ripetute volte a lungo in Medio Oriente, spostandosi continuamente dall'una all'altra capitale interessata. Dopo un tentativo di negoziato di fondo attraverso una conferenza che si aprì a Ginevra il 21 dicembre sotto la co-presidenza dei ministri degli Esteri statunitense e sovietico, Washington convinse i governi arabi e israeliano a impegnarsi in una preliminare trattativa diretta per un accordo a tappe, definita "diplomazia dei piccoli passi". Ad assecondare maggiormente la diplomazia statunitense fu il presidente egiziano Sadàt che il 4 settembre 1975 firmò un accordo di disimpegno nel Sinai con Israele. Si continuò tuttavia, specie da parte sovietica, a sollecitare la riconvocazione della conferenza di Ginevra, ritenuta la sede più valida per affrontare nel suo complesso il problema a.-israeliano.

Bibl.: E. Roleau, Israël et les Arabes: le 3° combat, Parigi 1967; S. Seguev, Israël, les Arabes et les grandes puissances, 1963-1968, ivi 1970; E. O'Ballance, The third Arab-Israel war, Londra 1972.

Vedi anche
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