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Dizionario di filosofia (2009)
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Benché storicamente il concetto di riferimento (o denotazione) sia stato elaborato all’interno della più ampia teoria del significato, è soprattutto nel 19° sec. che, nell’ambito della filosofia del linguaggio, comincia a delinearsi una vera e propria teoria del r. con un grado di autonomia dalla teoria del significato. Le tesi di J. Stuart Mill costituiscono la fonte principale delle teorie novecentesche del r.: secondo una distinzione già presente in Leibniz e nella logica di Port-Royal, Mill distingueva la denotazione di un termine, cioè l’oggetto concreto a cui il termine si riferisce, dalla sua connotazione, ossia l’insieme degli attributi e delle caratteristiche associate al termine. Mill, tuttavia, negava che i termini singolari, per es. i nomi propri, avessero una connotazione oltre che una denotazione: i nomi propri si riferirebbero direttamente agli oggetti che denotano, a differenza dei termini generali, per es. «cane», «cavallo», «oro», ai quali sono associate delle proprietà che permetterebbero una univoca identificazione degli oggetti o degli individui a cui tali termini si applicano. La successiva distinzione operata da Frege nel 1892 tra il senso (Sinn) e la denotazione o r. (Bedeutung) di un segno corrispondeva a quella milliana, con la differenza sostanziale che per Frege anche i nomi propri possiedono una connotazione, cioè un senso, attraverso il quale sarebbe possibile determinare univocamente la loro denotazione: per es., un possibile senso del nome «Aristotele» sarebbe «il maestro di Alessandro Magno», che consentirebbe di identificare l’individuo a cui il nome «Aristotele» si riferisce. Per Frege la caratterizzazione del senso di un’espressione come un aspetto di quanto il parlante sa circa quell’espressione esclude che il senso sia identificato con il riferimento. Se, infatti, conoscere il senso di un nome coincidesse con il conoscerne il riferimento, allora l’asserzione vera di identità a = b non avrebbe alcun valore cognitivo per chiunque conoscesse il senso dei nomi a e b, dal momento che egli saprebbe già che sia a sia b si riferiscono a uno stesso oggetto. Una concezione analoga a quella di Frege sarebbe stata difesa anche da Russell, che considerava i nomi propri come abbreviazioni di descrizioni (ossia sintagmi denotativi specificanti proprietà dell’oggetto denotato) che consentono una non ambigua identificazione dell’oggetto denotato. Alle teorie ‘descrittivistiche’ di Frege e Russell, al centro di un vasto dibattito all’interno della filosofia analitica, è stata contrapposta, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, per opera di Keith Donnellan, Saul Kripke e Putnam, una teoria del r. ‘diretto’, cioè non determinato attraverso sensi o descrizioni. Kripke (Naming and necessity, 1972; trad. it. Nome e necessità) ha soprattutto messo in evidenza che il r. di un nome proprio non è sempre univocamente determinato dalle proprietà descrittive a esso associate (se Aristotele non fosse stato il maestro di Alessandro, allora il nome «Aristotele», per la teoria descrittivistica, dovrebbe risultare privo di r. o riferentesi a un altro individuo). Di qui la riproposizione, da parte di Kripke, della tesi milliana che i nomi propri sono privi di connotazione e designano direttamente l’oggetto a cui si riferiscono: il loro r., in partic., verrebbe fissato attraverso una sorta di «battesimo iniziale» e mantenuto in virtù di una «catena causale comunicativa» che si tramanda da individuo a individuo, in ciascuno dei quali è presente l’intenzione di riferirsi con un certo nome al medesimo individuo od oggetto. Considerazioni analoghe hanno condotto Kripke e, soprattutto, Putnam (The meaning of ‘meaning’, 1975) a separare anche l’uso referenziale dei cosiddetti termini di generi naturali («oro», «acqua», ecc.) dalle proprietà definitorie a essi associate (il colore, la lucentezza, la trasparenza, ecc.): come i nomi propri, tali termini si riferirebbero direttamente a un tipo di sostanza, indipendentemente dalle caratteristiche epistemiche, contingenti e soggette a variazione, che potrebbero essere utilizzate per identificarne il riferimento.

Vedi anche
BASIC Sigla di Beginner’s all purpose symbolic Instruction code, linguaggio di programmazione ad alto livello, ideato nel 1963 da John Kemeny e Thomas Kurtz al Darthmouth College. Pensato per i principianti, era votato più alla semplicità che alla potenza espressiva. Nel corso degli anni, ai concetti originari ... compilatore In informatica, programma che traduce il codice sorgente (un altro programma) scritto in un linguaggio di programmazione di alto livello in codice oggetto o target (un terzo programma) scritto in un linguaggio di più basso livello. Utilizzando un altro programma, il linker, è possibile ‘collegare’ i ... UNIX Sistema operativo (➔ operativo, sistema) implementato con il linguaggio di programmazione C, sviluppato dai Bell Laboratories inizialmente per uso interno e successivamente introdotto in ambiente accademico e industriale in varie versioni prodotte principalmente dagli stessi Bell Laboratories e dall’università ... FORTRAN Sigla di for(mula) tran(slator), linguaggio di programmazione simbolico, procedurale e imperativo, indipendente dal calcolatore utilizzato. Realizzato tra il 1954 e il 1957 da un gruppo di esperti operanti presso la IBM guidato da J.W. Backus, nel corso degli anni ne sono state rilasciate diverse versioni, ...
Vocabolario
riferiménto
riferimento riferiménto s. m. [der. di riferire2]. – La azione di riferire, il fatto di venire riferito, e il modo o il mezzo stesso con cui si attuano, soprattutto nei seguenti sign. e usi: 1. Rimando, rinvio a persona o a cosa diversa,...
riferire²
riferire2 riferire2 v. tr. [lat. referre, comp. di re- e ferre «portare»] (io riferisco, tu riferisci, ecc.). – 1. a. Di notizie, fatti, discorsi, riportarli, cioè comunicarli, farli sapere ad altri: appena tornato a casa riferì l’accaduto...
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